Vinyan

Dopo Calvaire, il belga Fabrice Du Welz realizza un’opera allucinata, dominata dalla follia e dal dolore di una perdita incolmabile

A quattro anni di distanza dallo splendido Calvaire - sua terza opera dopo l’esordio, nel 1997 col film d’animazione Folles aventures de Thierry Van Hoost e il corto Quand on est amoureux c’est merveilleux (1999) - Fabrice Du Welz dà alla luce un film in apparenza molto diverso dal precedente, in realtà pregno di quelle tematiche che formano la poetica del regista e che nel recentissimo – e magnifico - Alléluia, trovano la propria evoluzione. In Calvaire, così come in Vinyan, il dolore per una perdita, un’assenza, diventa follia: in Alléluia, vedremo ancora una volta questa pazzia sofferente, le cui radici affondano in una solitudine durata forse troppo a lungo.

Vinyan è ambientato in Thailandia, a Phuket, città in cui i coniugi Paul e Jeanne Bellmer (Rufus Sewell e un’intensissima Emmanuelle Béart) decidono di fermarsi dopo la perdita del figlio Joshua (Borhan Du Welz) nello Tsunami di sei mesi prima. Jeanne non si rassegna, e vuol credere che Josh sia ancora vivo: è sufficiente un fotogramma di un filmato girato nei pressi di Burma, in cui si intravede un bambino di spalle, con una maglietta del Manchester United, per instillare in lei la convinzione che quello sia suo figlio. Inizia così il viaggio della coppia verso la Birmania, sotto la guida dell’infido Thaksin Gao (Petch Osathanugrah), un malvivente dalle tante false promesse, tante quante il denaro che chiede loro in continuazione.

Immagine rimossa.

E’ proprio a questo punto che si crea la frattura, quel punto di non ritorno che è ricorrente nelle opere del cineasta belga, il passaggio da una condizione a un’altra, dal malessere alla follia: un passo breve, quasi impercettibile e assolutamente inesorabile. L’addentrarsi nella giungla inospitale, sotto una pioggia che pare incessante, acqua che non lava, non purifica bensì rende marcescenti, una discesa agli inferi in un cuore di tenebra che rispecchia il buio della mente, l’ossessione cieca. L’acqua è elemento fondamentale in Vinyan, con la violenza dello Tsunami che ha portato via Joshua, il fiume che i Bellmer attraversano per raggiungere il villaggio e la già citata pioggia, che è il pianto perenne dell’anima. Jeanne, a poco a poco, perde il senno: così come l’albergatore Bartel, in Calvaire, impazzisce in seguito all’abbandono da parte della moglie, donna che forse non è mai nemmeno esistita, e trasforma Marc in un disperato sembiante femmineo identificandolo nella fantomatica consorte, allo stesso modo Jeanne vede il figlio in ogni bambino che Thaksin Gao le pone di fronte. Bambini del luogo, col volto dipinto di bianco (“io ho detto che c’era un bambino bianco, eccolo, che sia o non sia vostro figlio, che differenza fa?”), che inizialmente scherniscono la donna mentre Paul tenta, disperatamente, di riportarla alla realtà; ma anche l’uomo vacilla, in preda ad allucinazioni che paiono non avere senso.

Immagine rimossa.

I bambini “selvaggi”, a tratti crudeli, spaventati e spaventosi, sono complementari a Jeanne: da ostili le si asserviscono in un finale cruento e al tempo stesso enigmatico; ella ora è Madre di ognuno di loro, figura archetipica che è come sempre “amorosa e terribile”, così come terribile è l’atto di violenza che compiono. La pioggia, nelle inquadrature finali, è ancora una volta pianto che diventa liberatorio: la trasformazione è compiuta, la donna ora è altro da sé. Quel Femminile che in Calvaire era del tutto assente fisicamente, ma più che mai incombente, qui è onnipresente e onnicomprensivo, mostrando la donna in quanto Madre che perde il proprio figlio e con esso smarrisce la ragione. Alléluia mostrerà il passo successivo, con un’altra potentissima figura femminile, anch’ella folle, anch’ella dolorosa e dolente.

Il titolo del film si riferisce a una sequenza centrale, in cui la protagonista assiste a una celebrazione: lampade di carta vengono fatte librare nel cielo, e per bocca di Thaksin Gao ci viene svelato che quelle luci sono guide per gli spiriti di chi ha conosciuto una morte violenta, anime erranti e furiose, i “vinyan”. Chi è in vita fa volare un lume, per aiutarli a raggiungere il mondo dei Morti e dunque, la pace.

Il talento sia registico che scrittorio di Du Welz è affiancato da due contributi fondamentali: quello del direttore della fotografia Benoît Debie, all’opera anche in Calvaire e che regala immagini di una bellezza mesmerizzante e carnale, e la componente musicale curata da François-Eudes Chanfrault (Alta Tensione di Aja), che sposa il visivo in un nero e mirabile matrimonio d’angoscia.

Vinyan fu presentato fuori concorso alla 65° Mostra del Cinema di Venezia, attirando l’attenzione della critica ma non dei distributori: la pellicola, così come le altre opere del cineasta, è tuttora inedita nel nostro Paese. Tuttavia Du Welz ci regala un altro “ritratto di una follia”, possentemente fisico, inesorabilmente doloroso, e si conferma così regista sempre più necessario nell’ambito del panorama europeo.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 03/02/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria