Far East 2015 / Alleluia

Ispirandosi alla vicenda dei “killers della luna di miele”, Du Welz realizza un melò nerissimo tra dolore, sangue e follia

Fabrice Du Welz, ai tempi del notevolissimo Calvaire (2004), annunciò che la pellicola costituiva la prima tranche di una “trilogia ardennese”, ambientata nelle zone cupe e ostili in cui il regista è cresciuto. Alléluia, presentato lo scorso anno al Festival di Cannes nell’ambito della Quinzaine des réalisateurs, è il secondo tassello di un trittico in divenire nel quale i paesaggi, i luoghi, non sono soltanto cornice bensì parte integrante del narrato, specchio delle angosce e tormenti di coloro che li abitano.

In Calvaire la solitudine di un villaggio isolato e abitato unicamente da uomini diviene il portale d’accesso alla follia, a una completa perdita del senno che è al tempo stesso spaventevole e profondamente addolorata: il disprezzo per i villains diventà pietà verso il personaggio di Bartel, colui che sequestra e tortura Marc identificandolo con la moglie fuggita, forse mai esistita. In Alléluia, i luoghi sono simboli delle anime dei protagonisti, frammenti di quel terreno scosceso qual è l’inconscio, che il cineasta belga analizza in modo mirabile.

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Partendo dall’obitorio nel quale lavora Gloria (magnifica Lola Dueñas), che vi presta servizio pulendo le salme: la narrazione parte proprio da lì, nel sottolineare, tramite la metafora mortifera, il vuoto della vita della donna, separata e con una bambina. Tramite un sito di online dating e spinta dall’amica Madeleine (Stéphane Bissot), accetta un invito a pranzo da Michel, un Laurent Lucas che qui riconferma un talento davvero non comune. E’ amore a prima vista per Gloria, nell’inseguire e aggrapparsi a un uomo affascinante e ambiguo, sedicente commerciante di scarpe, in realtà truffatore di donne ricche e attempate: ecco ritornare, dopo le anziane dell’ospizio in Calvaire, il Femminile in età matura, grottesco e disperato. Michel, che vive in una casa spoglia – si torna dunque all’importanza del luogo in quanto elemento speculare – e pratica ingenui rituali magici al fine di ammaliare la conquista di turno, diventa, per la protagonista, l’unica ragion d’essere: Gloria accetta, pur dolorosamente, che egli frequenti altre donne, proponendosi come sua complice nei raggiri per poi presentarsi alle vittime sotto le spoglie di sorella del seduttore. Le pulsioni, tuttavia, si rivelano più potenti di qualsiasi autocostrizione: nell’assistere agli approcci sessuali di Michel e della matura neomoglie Gabriella, resi quasi mostruosi dal ralenti sia video che audio, Gloria irrompe strangolando la rivale.

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Ecco dunque, il punto di rottura tipico della poetica di Du Welz, quel “momento di non ritorno” già visto sia in Calvaire che in Vinyan, qui sottolineato da una sequenza straniante: dopo aver dichiarato tutto il suo amore a Michel, appoggiata al tavolo della cucina su cui giace il corpo morto dell’altra donna, pronto per essere fatto a pezzi, Gloria intona una canzone, con le medesime parole appena dette all’amante. “Ils n’ont plus des rêves – sont vides, et seuls – ils sont dans la nuit”: gli altri, coloro che non possono capire l’intensità del loro amore, quell’amore che “rianima”, stando sempre alle parole di Gloria. La scelta stilistica di Du Welz, in un momento centrale del narrato, è rivelatrice: l’omicidio commesso è frutto di quell’amore infinito, quello che gli altri non hanno la fortuna di vivere, uccidere diviene pegno, oltre che semplice atto di follia. E’ amour fou allo stato puro, riallacciandosi così alla pazzia del Bartel di Calvaire e della Jeanne di Vinyan, l’obnubilarsi di chi, spinto da un sentimento, è convinto di essere nel giusto e non può fermarsi davanti a nulla. Nonostante i crimini commessi da Gloria, il cineasta ne offre un ritratto quasi affettuoso, in cui l’empatia si mescola a quella pietà per il villain già vista nella prima pellicola della trilogia delle Ardenne.

Un ritratto femminile divorato e divorante, così come quello della protagonista di Vinyan e della fantasmatica assenza/presenza dell’elemento donna in Calvaire, che si offre allo spettatore senza filtri, aprendosi completamente. Il personaggio di Michel, per contro, è indecifrabile nella sua inerzia che sfiora l’apatia; segnato da un trauma edipico, e proclamandosi “dispensatore di piacere”, così come lo era sua madre, mostra assai di rado reazioni decise: un rimbrotto iniziale dopo l’omicidio, e Gloria è perdonata. La componente infantile è un’altra delle anime del film: la donna, con Michel, diventa come una bambina, ora felice, ora arrabbiata, le uccisioni sortiscono sgridate, ed ella non ha remore ad abbandonare la propria figlia per seguire l’uomo. Nell’atto finale – Du Welz segmenta il film in atti, uno per ogni donna – la saggezza giunge per bocca della bambina di Solange, ricca e giovane vedova che Gloria, immediatamente, percepisce come un reale pericolo: nel manifestare il suo disprezzo verso Gloria, la piccola urla alla madre: “sei cieca o cosa??”. Una frase semplice, che risulta tagliente come una lama, giungendo verso un epilogo che resta aperto, ancora in essere, seguito dai titoli di coda che portano avanti l’ultimo segmento di narrato.

Alléluia è liberamente ispirato alla storia vera di Raymond Fernandez e Martha Beck, noti anche come “The honeymoon killers” (titolo del film di Leonard Kastle, tratto dalla vicenda, del 1969) e “Lonely hearts killers”: la coppia adescava le proprie vittime tramite annunci matrimoniali e venne condannata alla sedia elettrica per l’omicidio della 66enne Janet Fay. I due furono accusati di aver commesso oltre 20 uccisioni di donne tra il 1947 e il 1949.

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Suddiviso, come già accennato, in diversi capitoli, sorretto da una sceneggiatura pressocchè impeccabile e ulteriormente graziato dalle performances dei due attori protagonisti, Alléluia è un gioiello anche dal punto di vista visivo: la fotografia, curata da Manuel Dacosse, è fredda, talvolta sordida, per poi assumere tonalità calde, quasi seppiate, nei momenti di intimità tra Gloria e Michel, ad esaltare la dimensione idilliaca dell’amore così com’è percepita dalla donna. Lo script è firmato da Du Welz con la collaborazione di Romain Protat (all’opera anche in Calvaire) e Vincent Tavier.

Un melodramma cupissimo e violento, che rappresenta, probabilmente, la punta più alta di una filmografia tanto breve quanto eccelsa, il momento più evidente di un percorso di maturazione artistica che riconferma Du Welz come uno dei registi in assoluto più promettenti del panorama contemporaneo. Un film irrinunciabile.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 14/02/2015

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