Venezia 2013 / Unforgiven

L’operazione di remake ideata, scritta e diretta da Lee Sang-il, regista giapponese di origini e nome coreani, può trovare o meno una sua giustificazione in base al punto di vista dal quale la si osserva. Se infatti da un rifacimento cinematografico ci si aspetta una riscrittura e rielaborazione di temi e dinamiche narrative, magari nell’ottica di una nuova espressione autoriale, Unforgiven parrà un film assolutamente mancato, incapace di trovare una propria autonomia artistica. Se invece si privilegia il rapporto di ripetizione/variazione tra i due film, specie se tale connessione si esplica all’interno di contesti industriali e culturali diversi, ecco allora che il remake del capolavoro di Eastwood trova un suo motivo d’interesse, tutto interno ai generi chiamati a dialogare tra loro in una reciproca trasformazione, western e jidai-geki.

Presentato Fuori Concorso negli ultimi giorni di festival, Unforgiven riprende quasi tutto della sceneggiatura scritta da David Weeb Peoples, trasferendo la vicenda nel Giappone del 1880 all’interno di una cornice jidai-geki sui generis nel suo essere quasi fuori tempo massimo. La prostituta sfregiata, la taglia, l’offerta dell’amico di un tempo, lo sceriffo brutale, la spirale di violenza e rimorso e colpa, tutto questo ritorna regolarmente nel film di Lee, assieme a determinate soluzioni registiche, in particolare per composizione dell’inquadratura, che sono apertamente ricalcate su quelle di Clint Eastwood. Dagli stessi ingredienti però non esce automaticamente lo stesso risultato, e nel passaggio di genere Unforgiven perde (inevitabilmente e forse coscientemente) buona parte della propria natura, ovvero quella collocazione contestuale all’interno del genere western che ne fa acuta e amarissima riflessione sul rapporto tra mito e storia, verità e leggenda, archetipi riscritti e decostruiti sotto la lente di una violenza assoluta e a-storica. Rinunciando a rielaborare tale portata contestuale in un nuovo discorso all’interno del jidai-geki, Lee si limita all’omaggio, riscrivendo fedelmente il film amato in un nuovo contesto che ne supporti comunque la riflessione sulla violenza, virus sociale mai estirpato e sempre pronto a riprendere la propria diffusione. Tanto nelle pianure western che nella campagna giapponese la violenza mantiene la propria natura pervasiva e contagiosa, nascosta sotto pelle e pronta ad emergere per dominare e determinare ogni rapporto umano, sessuale, economico o sociale che sia.

Dove però il film di Lee trova il maggior punto di interesse è nella sua dimensione formale, nella riscrittura non tanto narrativa quanto estetica dei topoi che animavano il film di Eastwood, che nel rapporto di ripetizione/variazione svelano i diversi punti di contatto tra western e jidai-geki, specie se intesi nella loro accezione crepuscolare. Il Jubei Kamata di Ken Watanabe è come il Will Munny di Eastwood, un avanzo storico di un’epoca di assoluto individualismo, incarnazione di una violenza che ritornerà poi interiorizzata all’interno delle istituzioni di potere che a tale individualità si opporranno, come dimostra la duplice figura del sadico sceriffo. In questi termini la violenza fa da ponte e unico filo conduttore tra due epoche, il cui passaggio porta ad una ridefinizione dei rapporti sociali e della dicotomia singolo-collettività. Per assurgere a grande film Unforgiven avrebbe dovuto andare oltre questa similitudine di rappresentazione per trasformare il suo Jubei in un samurai fuori tempo massimo nel quale far collidere il rapporto tra mito e natura violenta, edulcorata dalla leggenda. Lee purtroppo si ferma prima, lavorando sulle assonanze puramente formali, sul rapporto tra la figura e lo spazio, sulla descrizione di un piccolo paese sperduto nella frontiera e alle soglie della modernità, dello Stato, ma nonostante questo freno Unforgiven ci sembra un’operazione meno gratuita di quello che potrebbe sembrare, specie nel suo cercare connessioni tra due generi apparentemente così lontani tra loro. Nulla di nuovo per carità, ma il risultato è comunque un film solido, soprattutto visivamente, e molto consapevole.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 05/12/2014

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