Una famiglia

Sebastiano Riso porta in concorso a Venezia uno sgradevole film sul traffico illecito di bambini.

La prima volta che vediamo Maria (Micaela Ramazzotti) e Vincenzo (Patrick Bruel) è sulla metro di Roma. C’è, tra i due, una qualche forma di relazione, ma non dev’essere molto appagante se la donna decide all’improvviso di sgusciare fuori dalla porta per seguire una famiglia con bambini che sembra aver catturato, per motivi ancora ignoti, tutta la sua attenzione. L’inseguimento, comunque, non va a buon fine e Maria torna da Vincenzo, scusandosi per l’accaduto e promettendogli che non succederà più. L’uomo si lascia convincere e la strana coppia – se cosi può definirsi – rincasa in un appartamento periferico dove si concede un rapporto sessuale freddo e distaccato.

Partendo da questo disturbante preambolo, Sebastiano Riso e i suoi sceneggiatori (Stefano Grasso e Andrea Cedrola, con cui aveva già collaborato per il primo film Più buio di mezzanotte) svelano lentamente la trama, nerissima, de La famiglia, secondo film italiano in Concorso a Venezia. Catapultandoci in un universo narrativo ancora più sordido di quello che le prime scene lasciavano presagire: Maria è infatti una madre surrogata costretta da Vincenzo, amante e sfruttatore, a portare avanti gravidanze altamente remunerative per conto di coppie (etero e omosessuali) impossibilitate ad aver figli o ad adottarli. Un mercato nero che nel nostro Paese è frutto del divieto assoluto di procedere con la surrogazione di maternità e di leggi restrittive – o nel caso delle coppie gay a dir poco lacunose – sull’adozione.

Il tema in sé possiede, dunque, una notevole rilevanza politica e sociale e ben si presterebbe ad essere scrutato da uno sguardo capace di restituirne l’urgenza, lo spessore, la sostanza; ma il modo in cui si traduce sul piano del racconto in La famiglia finisce purtroppo più per generare disgusto etico-estetico che per favorire una reale riflessione sull’argomento. La macchina da presa segue da vicino, con piglio realista, personaggi e relazioni che appaiono confusi e contradditori, senza mai lasciarli liberi di esplorare fino in fondo gli effetti che la militanza in un business così crudele dovrebbe originare e senza spiegare allo spettatore le ragioni, al di là dell’ovvia opportunità di profitto, di tale scelta. Nel caso di Vincenzo si allude molto rapidamente ad un suo terribile passato, mentre un subplot davvero troppo abbozzato, in cui lo spregevole individuo salva una povera ragazza (Stella, interpretata da Matilda De Angelis), dagli abusi di un fidanzato violento per sostituire presumibilmente una Maria sempre più debilitata e fuori controllo, lascia presagire che anche la protagonista sia stata reclutata mettendo in atto una dinamica di protezione, dipendenza psicologica e sfruttamento.

Troppo poco per un film che rimane poco incisivo, scomposto, sconnesso sia sul piano narrativo che su quello squisitamente teorico-concettuale. Ad esempio: se durante la prima scena di violenza la mdp lascia vistosamente la scena all’interno dell’appartamento per effettuare una mirabolante panoramica a 360 gradi nel cortile interno del condominio e tornare sull’azione quando ormai la brutalità si è già consumata, illudendo il pubblico più accorto che sia in atto una precisa scelta in materia di politica dello sguardo, più tardi viene mostrato il corpicino senza vita di uno degli ultimi infanti dalla salute compromessa che Maria ha ceduto a terzi. Una scelta che, se associata ad altre trovate irragionevoli – come l’idea del parto auto-eseguito a domicilio in un film che enuncia sui titoli di testa di ispirarsi a storie vere – e ad un risultato tecnico comunque poco entusiasmante, compromette irrimediabilmente la credibilità dell’opera e il rapporto con lo spettatore. Facendone senza dubbio uno dei film più deboli del concorso.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 06/09/2017

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