Hannah

Andrea Pallaoro si affida a una straordinaria Charlotte Rampling che si immerge e ci immerge nel suo dramma interiore.

Dopo l’interessante esordio nel lungometraggio con Medeas – film che s’immergeva negli umori e nei tempi dell’America profonda, scandagliando epifanie e abissi di una “famiglia tradizionale” – il giovane regista italiano Andrea Pallaoro sposta il suo obiettivo in Europa. Precisamente in centro Europa, in una Bruxelles solo intravista, dove si viaggia addirittura sulla metropolitana romana… e sì… la Linea B di Roma è abbastanza riconoscibile, creando però una straniante sensazione di film “europeo” senza particolari connotazioni spaziali.

Ma cosa sappiamo noi della protagonista Hannah? Quasi nulla. La conosceremo pian piano, dai suoi (controllatissimi) gesti, dalle sue (rare) parole, dai suoi (timidi) contatti umani, insomma dalla sua (monotona) vita che ci appare subito una prigione a cielo aperto. Una prigione di colpa, evidentemente: il marito è detenuto per un reato gravissimo e infamante (mai esplicitato nel film, ma abbastanza intuibile), che lo fa disconoscere dal figlio e dall’intera società. Non dalla moglie, però, che sembra forzatamente devota a un “mostro”: Hannah espia colpe non sue introiettando ogni dolore e Pallaoro asseconda questo percorso di redenzione dilatando a dismisura i tempi delle azioni e pedinando i suoi movimenti quotidiani con teleobiettivi che letteralmente la ritagliano dallo spazio circostante. I suoi spostamenti verso la casa dove lavora come donna delle pulizie, tra Metro e strade ovattate dal sonoro ricercatissimo, diventano quindi il “tempo” ciclico del nostro film.

Hannah è film “autoriale” nel senso più austero del termine, è vero, con rarissime concessioni allo spettatore che deve cercare di percepire ogni snodo narrativo solo da echi di accadimenti lontani. Insomma: il film sposa un’idea di cinema forse eccessivamente elitaria (art house direbbero gli anglosassoni), ma non per questo presuntuosa o pretestuosa. Andrea Pallaoro ha l’intelligenza di affidarsi totalmente a un’attrice – veramente straordinaria Charlotte Rampling, meritata Coppa Volpi a Venezia – che pian piano si e ci immerge nel suo dramma interiore. Ecco che il corso di recitazione che frequenta Hannah diventa paradossalmente il correlativo oggettivo della nostra esperienza spettatoriale: siamo dentro la storia perché siamo dentro la performance straordinaria della sua protagonista. Il lavoro sul personaggio della Rampling diventa pian piano il film di Pallaoro che inquadra i sentimenti repressi di questa donna (o di quest’attrice? Poco importa ormai…) sempre in primo piano. Un cortocircuito fascinoso e ipnotico che riesce a cogliere due o tre sequenze – l’incontro fugace con il figlio e il rifiuto totale di contatto, il pianto umanissimo in un bagno pubblico – di fortissima aderenza emotiva. Insomma: lo sguardo di Pallaoro non è mai compiaciuto o artificiosamente fine a se stesso e il suo film riesce a convincere pian piano… nel tempo.

Autore: Pietro Masciullo
Pubblicato il 17/09/2017

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