A última vez que vi Macau (Last Time I Saw Macao)
Annanzitutto un atlante sentimentale, con la sua cartografia di impressioni e ricordi

Tra i vicoli di Macao, città-stato volatile e crocevia di popoli e ambizioni, l’uomo ha perso la capacità di sfidare lo sguardo della macchina. Soltanto gli animali, i fantasmi che popolano nei vicoli le città abbandonate, sfidano il cinema ad interpretare un mondo in abisso, la cui dissoluzione è preludio ad una possibile, radiosa rinascita. Ed è un mondo oltre lo schermo quello che João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata indagano con le immagini ellittiche e misteriose di A última vez que vi Macau (The Last Time I Saw Macau), vincitore nel 2012 del festival di Coimbra e menzione speciale del festival di Locarno. I due registi formulano l’enigma urbano di un mondo che esiste soltanto nell’immaginario coloniale e storico del Portogallo. Macao è figura dell’assenza, luogo del possibile, calderone di infinite stringhe da combinare. Come la colonia africana di Miguel Gomes e del suo Tabù, anche il mondo di Macao intreccia l’immaginario con lo storico e si fa metafora dell’identità e del cinema di un paese che ha perso, oltre che il proprio passato, l’arte che lo ha pensato e tramutato in movimento.
Distrutto da precise politiche repressive culminate con la chiusura del ministero della Cultura, il cinema portoghese oggi vive di coproduzioni e registi migranti. Oggi la ex-colonia diventa il set-laboratorio da cui fare il punto su un’epoca e un mondo dove i confini geografici non contano più granché, sostituiti da flussi culturali ed economici. Uno di questi è chiaramente quello del cinema hollywoodiano, del noir: sponde rassicuranti da cui salpare verso la terra incognita del passato e dell’identità, non meno frammentati e segnati dal trauma coloniale. Macao è la città della perdizione e del cinema d’avventura. Las Vegas d’Oriente, musa del sublime cinema di Von Sternberg assieme a Shanghai, la superba. Città che, ci ricorda la voce narrante, ha digerito ed eliminato lingua e cultura portoghesi ad una velocità sorprendente. A Macao si ritorna perché – ci racconta una delle voci che ci guidano dentro il mondo del film – un’amica, Candy, prostituta transessuale, è finita nei guai e rischia la vita. Da questo innesco si accende l’avventura dello sguardo narrante, accompagnato da un crescente mistero che culminerà con l’Apocalisse, con la magia della creazione e un possibile Anno Zero del cinema e dell’immagine.
Di cosa stiamo parlando? Di un documentario, un film di finzione sperimentale, un elaborato esperimento di video-arte? A última vez que vi Macau è innanzitutto un atlante sentimentale, con la sua cartografia di impressioni e ricordi. Guerra de Mata è cresciuto a Macao, da dove non fa ritorno da trent’anni. Assieme al collega Rodrigues esplora il limbo tra passato e presente adottando e reinterpretando il lessico del cinema della memoria elaborato da Marker e Resnais. La memoria, si sa, è anche politica, è territorio di conquista. Così come la città contemporanea, conquistata dagli schermi e dalle complesse scenografie delle piazze, delle facciate dei palazzi, delle insegne luminose. La città è cambiata perché il mondo si è fatto immagine virtuale, vetrina a tempo pieno, e il simulacro è più solido e importante del referente. Per districarsi nella giungla di icone, feticci e ricordi è necessaria una Parallax View, per scoprire il perché di un assassinio per mano di un Potere dal volto coperto. Indagare la città, e dunque indagare se stessi, implica mettere in gioco la totalità dei codici e dei miti a disposizione del cinema, arricchirne il lessico per definire ciò che non si può descrivere.
A queste suggestioni si mescolano i fantasmi del noir e del mistery degli anni Quaranta e Cinquanta. Due universi – la memoria di Guerra de Mata, la cinefilia di Rodrigues – che, stratificandosi, compongono una odissea eclettica e poetica nel senso più squisitamente iconico del termine. Il documento e la fotografia d’epoca sublimano in un paradossale cinema senza attori, fatto di soggettive, camere a mano e campi lunghi vuoti: cinema antropologico senza attori. La presenza umana è quasi assente, sostituita dal grande organismo della metropoli orientale e dai gatti e i cani che si recitano come personaggi di un mito esoterico a metà tra l’Occidente di Esopo e l’Oriente della mitologia buddista. La rarefazione costringe lo spettatore a creare i personaggi al di fuori dell’immagine e genera una dimensione metafisica – punctum perennemente rinnovato – che raddoppia l’immagine nel sacro, ristabilendone l’aura e l’irripetibilità. Purezza e contaminazione, yin e yang; un polo, in nuce, all’interno dell’altro. La voce dei due registi e il commento sonoro sono le uniche guide per decifrare un viaggio all’interno di un prisma senza facile via d’uscita. Questo è cinema che crea un mondo, come dichiarava Tarkovskij a proposito di Antonioni. Cinema che vibra tra classicismo e poesia astratta, che distrugge se stesso e invita a guardare oltre ciò che si vede, oltre la sinfonia urbana e la pistola, verso le infinite possibilità della settima arte.