Tag (Real Onigokko)
Un gusto ludico estremo per un film che mescola realtà e finzione saltando da un genere all'altro. Si riconosce la mano di Sion Sono, ma la logica dell'accumulo è dietro l'angolo.

Dei tre film in programma al Torino Film Festival che portano la firma del maestro giapponese Sion Sono, Tag è senza dubbio quello più ambizioso, quello in cui messa in scena, tematiche affrontante e soluzioni visive toccano territori più fertili, rendendo la riflessione potenzialmente più significativa. Almeno sulla carta.
Il prologo da questo punto di vista è assolutamente emblematico: tutti gli elementi che poi ritroveremo nei successivi minuti sono presenti sin dalla sequenza d’apertura, a partire dal rapporto tra realtà e finzione, tra oggettività e soggettività.
La protagonista è presentata in un momento di solitudine, intenta a scrivere una sorta di diario segreto durante una gita con la classe in pullman; tutto il resto del mondo fuori sembra non toccarla perché concentrata in una realtà interiore che finisce per salvarle la vita quando un vento assassino taglia in due la vettura e tutti gli individui che la contengono, eccetto lei, naturalmente. Realtà e rappresentazione entrano da questo momento in un rapporto di batti e ribatti dialettico, dove all’io interiore della protagonista corrisponde, all’esterno, un caleidoscopio di fantasmi, di visioni più o meno reali con le quali è costretta a fare i conti.
Inoltre il thrilling della sequenza iniziale offre immediatamente la possibilità di saggiare la straordinaria abilità tecnica del regista giapponese, che oltre a mostrare con grande precisione il terrore suscitato da un nemico invisibile, è perfetto nel mettere in scena la soggettiva del vento assassino, con una tecnica e una resa tra l’altro abbastanza simili a quelle brevettate da Sam Raimi a partire da La casa.
Premesso che l’illusione di realtà è la cosa più lontana possibile da un film del genere e che fin dall’inizio l’autore chiede allo spettatore di fare uno sforzo di immaginazione radicale e senza compromessi per credere a ciò che vede, c’è da dire che anche se dal realistico si passa al simbolico la richiesta di giustificazione di determinate soluzioni estetico-narrative è sempre e comunque legittima.
A questo proposito Tag ci sembra un film riuscito solo in parte, che affonda nella potenza della metafora spesso con troppa fiducia, con soluzioni che a volte rendono perfettamente l’idea di quanto sia fertile la mente dell’autore (la sequenza del matrimonio può essere presa come caso emblematico), ma altre lasciano intendere come dietro alle esagerazioni visive più o meno disturbanti non ci sia alcuna reale giustificazione, se non il gioco per il gioco, la parodia non richiesta di qualcosa di cui non si capisce fino in fondo l’interesse. Lo spaesamento della protagonista, ad esempio, è reso benissimo dalla sua quasi invisibilità che la fa essere al limite di una presenza incorporea, tanto nella vita di tutti i giorni, quanto nei momenti di massima disperazione. Se tutto il versante legato alla perdita dell’innocenza appare quello maggiormente curato, molto meno sono quello della lotta tra sessi, della presenza del maschio in un mondo quasi esclusivamente femminile, e soprattutto l’articolazione tra i tre personaggi che completano la soggettività della protagonista.
A questo proposito la scelta dei tre personaggi che compongono o dovrebbero comporre la multipla personalità della donna sono sulla carta molto interessanti: la studentessa, la sposa e la sportiva in teoria potrebbero essere figure caratterizzanti e ben assortite per veicolare un discorso che a conti fatti risulta essere molto più acerbo di quello che sarebbe potuto essere.
Non si capisce tanto bene infatti come queste tre incarnazioni dialoghino tra loro e in che modo dovrebbero essere indispensabili l’una all’altra; esse appaiono piuttosto una messa in sequenza di tipi di donna senza una particolare integrazione, finendo per sprecare parzialmente un potenziale di grande livello. All’interno delle singole storie non mancano però invenzioni che ci ricordano quanto il vero Sion Sono esista ancora e non sia stato seppellito dalla coltre di ludicità esasperata che sembra avvolgerlo. Più di tutte forse sorprende la citata scena del matrimonio, naturale prosecuzione del coming of age della protagonista, dove al candore e alla gioia collettiva segue la perturbante trasformazione degli invitati che porta fino all’orrore del marito maiale.
A parte questo però resta il problema principale della pluralità di registri stilistici senza un’adeguata giustificazione: si passa dal dramma allo splatter, alla commedia degli equivoci, al film di arti marziali, dal videogioco alla critica sociale senza soluzione di continuità, ma soprattutto senza una reale motivazione.
Tutto sembra un po’ buttato lì, quasi a costruire un accumulo di soluzioni ficcanti, anche se non sempre riuscite, specie quando il gusto per l’esagerazione non trova alcun referente nel campo del cosa dire e dà luogo a una serie di operazioni quasi tutte velleitarie. La stessa riflessione sulla natura videoludica del racconto, che innesca il più classico dei meccanismi di rilettura all’indietro dell’opera, sarebbe potuta essere molto più solida se non fosse stata dispersa in un mare di altre riflessioni più o meno superficiali che trovano il punto di rottura nel finale, anzi, nei quattro o cinque finali che dilatano in maniera estenuante la chiusura di un film che, dato il materiale a disposizione, sarebbe potuto essere davvero un’altra cosa.