Speciale Oriente #2 - Daguerreotype (The Woman in the Silver Plate)

Il primo film in lingua straniera è uno degli apici di Kiyoshi Kurosawa, che torna a giocare al confine tra dramma e orrore, cavalcando i generi e le categorie.

Kiyoshi Kurosawa torna a giocare al confine tra dramma e orrore, cavalcando i generi e le categorie. Daguerreotype (The Woman in the Silver Plate) è un’opera atipica, e una scommessa: primo film non giapponese per il regista, girato in lingua straniera con attori stranieri, era un progetto potenzialmente rischioso. Senza dubbio, la scommessa è vinta: impeccabile nella forma, struggente e sottilmente inquietante, Daguerreotype costituisce uno degli apici della carriera dell’autore giapponese.

Daguerreotype è una storia di fantasmi e illusioni. Stephane è un fotografo che vive con la giovane figlia Marie in una vecchia casa isolata della periferia. L’uomo è ossessionato dall’arte che imita e sostituisce la vita: la sua tecnica, che vuole imitare la "purezza" dei dagherrotipi ottocenteschi, costringe le sue modelle a sessioni di posa estenuanti ma necessarie, secondo l’artista, a rubare la vividezza del reale e trasferirla sulle lastre fotografiche. Dopo la morte misteriosa della moglie, Marie è diventata l’unica modella dei ritratti fotografici del padre, di cui sembra più la vittima che il soggetto. L’arrivo di un nuovo assistente rompe l’ambiguo rapporto tra l’artista e la ragazza, mentre nella casa la presenza della moglie defunta si fa sempre più inquietante...

Difficile riprodurre la vicenda di Daguerreotype per iscritto: il confine tra fatti e illusioni si fa presto poroso, mentre illusione e realtà si compenetrano. I fantasmi sono silenziosi, ambigui: raffigurano domande senza risposta, macchie nere ai confini della visione che l’ingenuo dispositivo di Stephane vorrebbe catturare. L’arte può aprire le porte della percezione, ma è impossibile ridurre il mistero (o il Reale lacaniano, se vogliamo) ad impressione su una lastra fotografica: Kiyoshi Kurosawa torna a parlarci dell’universo invisibile che abita e infesta ogni essere umano, il tutto attraverso il paradossale linguaggio delle immagini in movimento. Immagini di assenze, percezioni spettrali proiettate sullo schermo d’argento. Gli stilemi horror servono solo a rendere possibili e pensabili queste assenze. A Kurosawa non interessa altro: è il genere stesso a farsi spettrale, a funzionare come una matrice di regole da abitare con nuovi oggetti e nuove domande. Le regole di ingaggio del cinema dell’orrore saltano presto, e Kurosawa si concede la libertà di ignorare i fantasmi per parlare degli uomini che vivono da fantasmi e di fantasmi.

Daguerreotype è un dedalo di suggestioni e citazioni, legate in particolare al contesto francese che dà nuova linfa all’immaginario poetico del regista giapponese: difficile non pensare al meraviglioso La chute de la maison Usher di Jean Epstein e al pennello che toglie la vita, trasferendola sulla tela. Dalla pittura alla fotografia – rigorosamente, ossessivamente, ingenuamente analogica – il passo è breve, come conferma la predilezione del fotografo per le pose classiche del ritratto borghese, mutuate direttamente dalla tradizione pittorica. Le suggestioni non si fermano qui, e gettano una luce interessante sull’opera del regista nel suo complesso: la fredda, algida perfezione compositiva di Kurosawa sembra il diretto corrispettivo del cinema di Ozon e delle sue esplorazioni dell’animo umano.

Daguerreotype gioca, come spesso nel cinema di Kiyoshi Kurosawa, al confine tra visibile e invisibile, travalicando i confini di genere e sovvertendo le aspettative. Nelle inquadrature perfette e calcolatissime, di Stephane come del regista, nuotano i fantasmi incontrollabili del desiderio, del lutto, della vita. Quando meno se lo aspetta, lo spettatore è travolto da atti di violenza improvvisi, gesti d’amore incontrollabili o schegge di cinema che sembra provenire da altre epoche e altri generi (Epstein, Bava, Argento, Shyamalan...). In questi momenti, quando il sipario si strappa, Daguerreotype si rivela nella sua natura più profonda di stanza delle meraviglie. Assistiamo al dispiegarsi ipnotico del teatro ottico nell’era del digitale: un ambiguo gioco percettivo dove lo sguardo si fa pura percezione e vive di vita propria, senza rendere conto a nessuno. Liberato dall’impressione fotografica, il cinema è ovunque e in nessun luogo. La casa Usher e la limousine di Holy Motors si ritrovano nei mari agitati dell’immaginario.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 01/12/2016

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