Reflection In A Dead Diamond
Ogni elemento visivo si frantuma in una rifrazione opaca, lasciando lo spettatore immerso, disorientato, e forse proprio per questo più lucido. Perché ciò che Forzani e Cattet mettono in scena non è tanto il passato, quanto la sua irrecuperabilità, la sua trasformazione definitiva in superficie specchiante ma vuota.
Walter Benjamin, nel suo celebre saggio L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, parlando dell’aura dispersa nella riproduzione dell’immagine, diceva che «nel riflesso si annida l’aura dell’irripetibile». Hélène Cattet e Bruno Forzani, nel loro nuovo Reflection In A Dead Diamond, riprendono questa forma, cara tanto al barocco quanto alla spy fiction, per scolpire un’opera che non racconta ma seziona lo sguardo cinematografico. Lo scopo, al giorno d’oggi, non è più quello di riflettere la realtà, ma piuttosto di frammentarla fino a raggiungere un punto di rottura visivo e percettivo.
Nell’approdare alla decostruzione degli spy movies anni ’60, il duo belga conserva l’ossessione per l’immagine-sensazione, dove il formalismo, esasperato dal gioco di montaggio serrato e da una deformazione prospettica dell’inquadratura, acquisisce una funzione totalmente narrativa. Il nuovo film della coppia belga, però, non si limita a una rilettura estetica del genere: estende il suo campo d’indagine alla riflessione meta-cinematografica, all’illusione spionistica e soprattutto al racconto mnemonico. Il corpo invecchiato di un esemplare Fabio Testi porta infatti i segni non solo del tempo, ma anche della colpa, del desiderio represso, della ripetizione coatta. Il tempo, così, si trasforma in un’allucinazione nostalgica, capace di coinvolgere anche lo spettatore, costretto a vivere in prima persona la scomposizione della soggettività del protagonista, sempre più scissa tra la pulsione del passato e l’inerzia della vecchiaia.

La memoria si fa dunque dispositivo perturbante, mandando in frantumi ogni gerarchia temporale all’interno del film. Le immagini del giovane John, le sequenze erotiche sature di colore, gli interni lussuosi tipici del cinema di spionaggio anni ’60, persino i luoghi del litorale della Costa azzurra, non sono più spazi reali ma ambienti mentali che risultano riattraversati, nel tentativo (fallito) di restituire una stratificazione mnemonica coerente ma anche di eliminare ricordi ormai inaffidabili, formati da fantasmi sensoriali e connessioni fuorvianti. Il dispositivo mnemonico, nella sua centralità, diventa campo di tensioni visive e acustiche, dove il montaggio non costruisce ma lacera: interrompe, ripete, sovrascrive invece di chiarire e di fatto porta a “subire” il passato, in un confronto che può essere solamente rimandato ma che inesorabilmente si ritrova a essere affrontato.
Il confronto tra giovane (Yannick Renier) e vecchio (Fabio Testi), operato attraverso sovrimpressioni, soggettive e sdoppiamenti diegetici, non solo spezza le fila del racconto, ma lo priva progressivamente delle capacità mnemoniche. Il tempo cessa di essere una cronologia lineare: diventa riflessione sulla dissoluzione dell’identità, teatro di una soggettività senza centro. La doppiezza del dramma estende, di fatto, questa perdita, che dalla semplice decadenza, apparentemente nostalgica, delle icone della Settima Arte si trasforma, piuttosto, in un’analisi a tutto tondo sullo stato del cinema di genere nel panorama odierno, che dal passato trae solo rovine e dal futuro riceve solo oblio. L’immagine è paradigma dell’astrattezza odierna di un cinema totalmente “a trazione maschile”, dove però, rispetto al cinema stilizzato degli anni ’60/’70, lo sguardo dell’uomo non domina più l’immagine ma ne viene, piuttosto, risucchiato. Ogni inquadratura è residuo sensoriale di un tempo che non può più essere posseduto, una reliquia di un genere ormai scaduto che non può più abitare il contemporaneo, se non in forma di shock visivo-uditivi, unici vettori capaci ancora di attivare quel flebile potere affettivo nello spettatore contemporaneo, il quale si trova a desiderare narrazioni passate senza più potervi accedere veramente.

Un istinto, quello del revival, che in realtà nasconde una pulsione funerea, per cui piuttosto che rianimare la spy story classica qui se ne celebra le esequie. L’immaginazione cinematografica, malgrado i continui ammiccamenti a Terence Young (Dr. No e From Russia With Love) e Mario Bava (le forme ultrapop di Diabolik), in Reflection In A Dead Diamond appare una componente piuttosto asettica, pachidermica, congelata in un’immagine bella da guardare ma impossibile da abitare. Il film di Cattet e Forzani non è dunque un omaggio, quanto una dissezione critica. Ogni elemento visivo si frantuma in una rifrazione opaca, lasciando lo spettatore immerso, disorientato, e forse proprio per questo più lucido. Perché ciò che Reflection in a Dead Diamond mette in scena non è tanto il passato, quanto la sua irrecuperabilità, la sua trasformazione definitiva in superficie specchiante ma vuota.