Sherlock - Stagione 4

La coppia formata da Moffat e Gatiss chiude un percorso controverso e coraggioso scommettendo intensamente sui propri personaggi.

Fin dal formato narrativo Sherlock è una serie anomala, con stagioni composte di soli tre episodi, ciascuno della durata di un’ora e mezza. Uno show che ama prendersi il proprio tempo senza rispettare alcuna scadenza annuale, tanto che tra la terza e la quarta stagione sono passati ben tre anni. In mezzo solo un Christmas Special (The Abominable Bride), andato in onda nei primi giorni del 2016 e distribuito anche in sala come esperimento dagli esiti molto redditizi.

A quarta stagione ultimata è possibile dividere la serie e identificare con sufficiente sicurezza due cicli, uno costituito dalle prime due stagioni, l’altro dalle successive (arricchite dall’episodio speciale). Naturalmente, pur trattandosi di fasi creative con importanti differenze, non bisogna prendere questo discorso in maniera troppo rigida: molte delle caratteristiche distintive della seconda tranche erano giù presenti nella prima, così come ciò che ha fatto la fortuna delle prime due stagioni non ha smesso di essere presente nelle successive.

Prima di parlare della quarta stagione, vale la pena soffermarsi qui per specificare meglio questa distinzione: le prime due stagioni rappresentano una versione di Sherlock più classica, in cui il lavoro di adattamento, pur tradendo dal punto di vista semantico, rimane molto fedele alla materia letteraria e al suo svolgimento originale. Steven Moffat e Mark Gatiss ricostruiscono alla perfezione il rapporto tra i protagonisti e soprattutto realizzano meccanismi ad orologeria che non hanno nulla da invidiare alla materia di partenza; sono episodi che riescono sia a introdurre e raccontare i protagonisti sia a inserirli all’interno di un racconto dominato da una detection che va dall’inizio alla fine.

Dalla terza stagione le cose cambiano: il pubblico ha imparato a conoscere i personaggi, le storie hanno raggiunto un livello di perfezione tale di rischiare di diventare ripetitive e la serie è diventata un fenomeno popolare forte di un successo globale che ha pochi eguali (stimolato dal finale della seconda stagione, che pianta le basi per il nuovo corso e invita gli spettatore ad un coinvolgimento ben maggiore rispetto al passato). Dalla terza stagione il focus si sposta infatti dal plot ai personaggi, trasformando nettamente la serie. Si tratta di un processo che dà ottimi risultati (tutt’altro che scontati) e che conosce un momento di leggero appannamento creativo solo nel Christmas Special, episodio particolare e molto insidioso dal punto di vista narrativo, che pur avendo tante cose da raccontare e mostrare non riesce a mantenere lo stesso equilibrio degli altri.

La quarta stagione porta avanti il percorso con ancor più determinazione, arrivando quasi a disinteressarsi della tradizionale detection per concentrarsi in maniera totalizzante sui personaggi, pur non rinunciando a dialogare con i racconti di Arthur Conan Doyle mantenendo un approccio investigativo che, nonostante tutto, rimane una parte costitutiva dello spirito della serie.

Il primo episodio è tratto da un racconto chiamato The Adventure of the Six Napoleons - che nella rivisitazione scritta da Gatiss diventa The Six Thatchers - e utilizza il caso da risolvere solo come pretesto iniziale, come esca da gettar via una volta che il pesce grosso, nascosto sul fondale del racconto, ha abboccato. In questo caso il pesce grosso è il triangolo formato da Sherlock, Watson e Mary, già protagonista degli ultimi due episodi della scorsa stagione ma che in questo vive il suo momento di massimo approfondimento, e al contempo di risoluzione. L’episodio infatti compie diversi salti mortali per condurre la storyline sul passato di Mary fino alla struggente morte della donna, la quale anche per responsabilità dello stesso Sherlock viene ferita letalmente da un colpo di pistola.

L’intero episodio è un grande imbroglio – nel senso più nobile del termine – che parte come un’investigazione sul caso delle sei Thatcher e finisce per essere una lunga rampa di lancio, la condizione necessaria e sufficiente per gli episodi successivi; insomma una fluviale introduzione che rivoluziona totalmente il modus narrandi degli autori, un tempo così affezionati agli episodi autoconclusivi. Arrivati alla fine ci si imbatte nel fantasma di Moriarty, con una condizione di forte conflittualità tra i due protagonisti e con Sherlock, mai così fragile e fallibile come in questo momento, determinato a recuperare il rapporto con l’amico.

Il secondo episodio è scritto da Steven Moffat e rappresenta la risposta a coloro i quali hanno sollevato più di un sopracciglio dopo una premiere così atipica, e dunque così lontana dalle aspettative generali. Se questa stagione sposta radicalmente il focus sui personaggi – e The Six Thatchers è stato il prologo in grado di incendiare i rapporti e creare il doloroso incidente scatenante – The Lying Detective rappresenta il tassello naturalmente successivo, il cuore del terzetto, il punto medio di quella che a tutti gli effetti è una trilogia sulle emozioni.

Steven Moffat prende il concept originario del racconto e vi costruisce sopra una detection atipica, dove l’obiettivo di Sherlock non è incastrare l’assassino ma risorgere come uomo e guadagnarsi il perdono del migliore amico. Attorno a questo pilastro narrativo l’autore inventa un personaggio camaleontico, interpretato dalla splendida e bravissima Sian Brooke, che al termine di numerose trasformazioni si rivelerà essere l’ultimo, spiazzante asso tirato fuori dall’episodio. è virtuoso, narciso, esibizionista, geniale quanto il suo autore, il quale per l’occasione si affianca a un regista, , che ha già diretto alcune delle sue migliori sceneggiature, come e The Angels Take Manhattan di Doctor Who, oltre a His Last Vow, terzo episodio della scorsa stagione di Sherlock. Hurran è infatti perfetto nel rendere la finta dipendenza da droga del protagonista con montaggi frenetici e riprese che utilizzano distorsioni e ralenti in maniera abbondante benché mai ingiustificata.

A questo punto il finale, oltre ad essere attesissimo, ha un’importanza cruciale, non solo perché accettare che Sherlock ci abbia messo tre anni a tornare e solo due settimane ad andar via non è affatto semplice, ma anche perché il giudizio finale su questa coraggiosa stagione dipende in maniera consistente dalla chiusura.

L’episodio si intitola The Final Problem e già da questo si intuisce una complessa intertestualità: il titolo infatti è lo stesso del racconto a cui si è ispirato l’epilogo della seconda stagione, quello con lo scontro finale tra Sherlock e Moriarty. Qui Moffat e Gatiss costruiscono un Giano Bifronte che da una parte ha il volto della nemesi del detective (la cui entrata in scena è da cineteca) e dall’altra quello della folle, geniale e incredibilmente triste Eurus, sorella di Sherlock e Mycroft. Come in The Lying Detective, ma in maniera ancor più radicale seppur meno perfetta, viene messa in scena un’investigazione delle emozioni, i cui fili sono tirati da Eurus che arriva a sottoporre Watson, Mycroft e soprattutto Sherlock a una serie di prove sempre più dolorose (straziante quella che coinvolge Molly), realizzando una partita a scacchi con il fratello minore che ha come fine l’essere salvata (e prima di tutto ascoltata) e come mezzo quello di mettere Sherlock di fronte alla propria dolorosissima infanzia.

Nel mediascape contemporaneo si può incontrare l’immagine di Sherlock Holmes praticamente dappertutto, dai romanzi ai racconti, dai cartoni animati al cinema, dalla fan fiction alla televisione, dai fumetti ai giocattoli. Ma se c’è una forma narrativa che in potenza si presta alla rivisitazione del più famoso investigatore del mondo, questa è la serialità televisiva, grazie soprattutto all’intrinseca predisposizione al loop, ai meccanismi di racconto a spirale e al rapporto tra differenza e ripetizione eletto a dispositivo creativo principale.

Per tre anni Steven Moffat e Mark Gatiss hanno ricevuto piogge di elogi e ora ritornano con una stagione senza dubbio controversa, che si è presa enormi rischi e ha avuto il coraggio di cambiare, investendo tantissimo sui personaggi e sulla complessità dei temi trattati. Si tratta di un nuovo modello di storytelling e di un cambiamento decisamente drastico e impavido per una serie che avrebbe potuto ripetere la propria formula perfetta all’infinito. E non poteva esserci un finale migliore di un commovente e in tutti i sensi conclusivo montaggio che celebra il mito di Sherlock Holmes e ci ricorda l’immortalità dei nostri due eroi, benché per qualche episodio abbiamo avuto la fortuna di scoprirli così splendidamente umani.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 31/01/2017

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