Dossier Steven Spielberg / 23 - Le avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno

Come il Tardis del Doctor Who, qui la cinepresa di Steven Spielberg è un mezzo di trasporto per muoversi liberamente attraverso i continenti e le epoche, i paesi e le vite precedenti.

Quello tra Steven Spielberg e il cinema di animazione è un rapporto lungo e fruttuoso, una storia d’amore che in più di un’occasione ha spinto il regista americano a farsi produttore per portare sullo schermo le visioni altrui (un nome per tutti: Don Bluth). Bisognerà aspettare il 2011 per il suo primo – e a oggi unico – film non in live action, anche se per l’occasione viene adottata la tecnica del motion capture già sperimentata con successo dall’amico Robert Zemeckis (la bellissima trilogia composta da Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol), scelta che comunque non può fare a meno della componente umana. E se a Zemeckis era spettato il compito di fare da pioniere apripista, Spielberg si trova tra le mani uno strumento già in avanzato stato di sviluppo, in grado di garantire una qualità tecnica sorprendente – e sotto alcuni aspetti ancora oggi ineguagliata.

Il materiale di partenza è il popolarissimo fumetto Tintin, creato da Georges Remi in arte Hergè, che in Francia e in Belgio è tuttora una vera e propria icona della bande dessinèe (BD): comparso per la prima volta nel 1929 sulle pagine della rivista Le Petit Vingtième, il personaggio è stato protagonista di ben 24 avventure fino al 1983, anno della morte del suo autore, vendendo in tutta Europa qualcosa come 200 milioni di copie. Scritto da Edgar Wrigt, Joe Cornish e Steven Moffat, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno non è l’adattamento fedele di un albo in particolare, bensì la riuscitissima commistione di più storie, e in particolar modo di tre: Il granchio d’oro (1941), Il segreto del liocorno (1943) e Il tesoro di Rackham il Rosso (1944), nonostante siano presenti anche elementi e richiami da più parti della serie (Tintin e lo scettro di Ottokar, I gioelli della Castafiore). Un’operazione quindi ardita anche dal punto di vista filologico, che lavora sull’immaginario e sugli universi narrativi del personaggio proponendo qualcosa di assolutamente fruibile sia per i lettori di vecchia data (in Francia il film è stato un ottimo successo commerciale, purtroppo non replicato altrove) che per lo spettatore neofita, qui perfettamente a proprio agio in un contesto in grado di apparirgli familiare sin da subito.

C’è poi un sottile fil rouge che unisce il fumetto a Spielberg, poiché una nota recensione dell’epoca paragonava I predatori dell’arca perduta proprio allo spirito avventuroso caratteristico degli albi di Tintin: per il regista ecco quindi l’occasione perfetta per aggiornare il proprio universo fantastico, come se Il segreto dell’unicorno fosse una sorta di Indiana Jones 2.0 (e non è un caso che sia il suo primo film dopo Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, di tre anni precedente) nel quale poter azzerare tutto per ricominciare daccapo, grazie alle infinite possibilità offerte dall’animazione digitale e dal motion capture.

Ed è un nuovo, meraviglioso tassello del suo viaggio all’interno della meraviglia e del sense of wonder, un tributo a quell’Avventura con la A maiuscola che ha da sempre caratterizzato il suo cinema. Dopo aver omaggiato la bidimensionalità del fumetto e del suo tratto nella sequenza iniziale del mercato, in cui è possibile riconoscere non soltanto il protagonista ma anche buona parte dei personaggi – secondari o meno – della saga, Spielberg si getta a rotta di collo attraverso le profondità della tridimensionalità, reinventando e stravolgendo in maniera incredibilmente audace il concetto di spazio e tempo: con Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno il regista compie innanzitutto un lavoro di rifondazione del proprio sguardo, esplorando l’inquadratura e l’immaterialità del set con lo spirito di un fanciullino anarchico (l’auto-citazione da Lo squalo con il ciuffo rosso al posto della pinna; oppure la sequenza finale del combattimento con le gru, un dichiarato omaggio a Carl Barks e alla sua storia Paperino e la scavatrice).

Qui è come se mostrasse il mondo per la prima volta, libero dai limiti imposti dalla fisica e utilizzando la macchina da presa come una sorta di cabina telefonica del Doctor Who (e la presenza di Moffat in fase di scrittura sta qui a dimostrarlo, appunto), un Tardis in grado di muoversi liberamente attraverso i continenti e le epoche, i paesi e le vite precedenti – come nella meravigliosa sequenza della rievocazione delle gesta marinaresche dell’antenato di Haddock. La materia diventa polvere di stelle, eterea e inafferrabile, nella quale la macchina da presa può prodigarsi in meraviglie sempre più incredibili: se la celeberrima sequenza dell’autostrada in Matrix Reloaded aveva violentemente spalancato le porte del cinema del futuro, qui il discorso viene portato alle estreme conseguenze, liberando di fatto la figura del regista/creatore da qualsiasi vincolo terreno, e il lungo piano sequenza dell’inseguimento in Marocco finisce così per stabilire il nuovo record da infrangere. Ma anche senza l’esperienza del 3D in sala, il film mantiene comunque una sua innata profondità di campo, perfettamente godibile anche nella tranquillità della visione casalinga.

Nelle intenzioni originali il produttore Peter Jackson avrebbe dovuto dirigere il secondo capitolo, per poi unire le forze con Spielberg e realizzare a quattro mani un terzo, ma il modesto successo del film ha bloccato il progetto: un grandissimo e inestimabile peccato.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 15/02/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria