Sexy Durga

Nonostante alcune debolezze, nella stasi fuori dal tempo di Sexy Durga si ritrova la forza dei racconto mitologico che esonda nella realtà per travolgere il quotidiano.

Semplice on the road o viaggio alla scoperta della dimensione sacrale e primitiva di un racconto connesso alla mitologia indiana? Incarnazione di una divinità o ragazza in fuga da un segreto che vuole, a tutti i costi, nascondere? Questi due enigmi sono il cuore pulsante di Sexy Durga, lungometraggio di Sanal Kumar Sasidharan, presentato in concorso in occasione della 53esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Sulle lost highways che costeggiano una serie di località dell’entroterra indiano, si consuma la fuga di due ragazzi (Kabeer e Durga) e il loro disperato tentativo di raggiungere una stazione ferroviaria per spostarsi verso il Nord dell’India. Lungo il loro tragitto, incontrano forze di polizia, una piccola banda di criminali reduce da una rapina e due uomini malintenzionati da cui riescono a fuggire con difficoltà. In contemporanea ai tragitti rettilinei compiuti dalla coppia in fuga, il moto ondulatorio e circolare di una processione sacra anima le strade di un villaggio del Kerala. In preda a danze baccantiche, alcuni fachiri si fanno trafiggere il corpo con degli uncini e partecipano, appesi a dei cavi, al rito Garudan Thookkam, forma d’arte rituale in ringraziamento alla Dea Kalì.

I due momenti sono presentati tramite montaggio alternato e differenti scelte a livello di organizzazione visiva: se per la rappresentazione del rito, la regia predilige un decoupage che segue il ritmo forsennato delle danze tribali, tutta la fuga in auto è portata in scena attraverso diversi piani sequenza che ne assecondano la dilatazione e conducono dritto all’improvvisa detonazione finale. «Il tempo e la verità se ne sono andate. Le storie rimangono». Nell’assenza di riferimenti del viaggio in auto, in cui lo sguardo dello spettatore si muove confuso, in preda ad un delirio notturno in cui è difficile ambientarsi e ad un progressivo annebbiamento di ogni fonte luminosa, il percorso di Durga si configura come una passione, un estremo sacrificio laico, il cui senso, come la meta da raggiungere, è di difficoltosa rintracciabilità. Nell’attimo in cui il gruppo di criminali assume sembianze animalesche, favorendo la piena coincidenza di versante rituale e reale della vicenda, la forza dei racconti mitologici esonda, con lo stesso impeto della violenza che pervade ogni angolo della società rappresentata, e travolge la quotidianità.

Che trattamento verrebbe riservato alle Dee Kalì e Durga se vivessero nell’India contemporanea? Continuerebbero ad essere venerate e ad alimentare storie e racconti su di loro o andrebbero incontro ad un destino ben differente? La sintesi dell’accostamento di rituale popolare e di trip notturno è da ritrovare in questi due quesiti. È, tuttavia, nel finale che Sexy Durga non riesce pienamente ad esprimersi. L’accostamento tra rito e realtà non lega lo spettatore al giogo del proprio racconto, mantenendo una distanza che sarebbe stato meglio colmare. Lo spettacolo ritualistico porta in scena la corporalità popolare ma non attinge del tutto al suo mistero ontologico. Nella fissità fuori del tempo del percorso notturno, però, è possibile ritrovare la forza di un cammino che restituisce un’impressione di immediatezza in grado di riscattare le indecisioni precedenti.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 23/06/2017

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