Se sei vivo spara

Jules e Kim nel selvaggio west cavalcano orrore e politica

"La critica entusiasta, il pubblico allibito, la censura in allarme! Il film è severamente vietato ai minori di 18 anni, perché trattasi di esperimento allucinante ai limiti del proibito. Dato il crudele realismo delle scene se ne sconsiglia la visione alle persone facilmente impressionabili"

Cominciamo dall’inizio, partiamo dal titolo. Se sei vivo spara è chiaramente un western, non potrebbe essere altrimenti. Un western all’italiana come Se vuoi vivere... spara!, Se t’incontro t’ammazzo, Uccidi o muori, Hai sbagliato... dovevi uccidermi subito! e via citando. Caterve di titoli che non danno adito a fraintendimenti. "Se sei vivo" però è diverso da "se vuoi vivere", mentre la seconda espressione tira in ballo il concetto di sopravvivenza la prima è interpretabile anche in senso figurato, il vivere come essere partecipe. Ne consegue che l’imperativo spara non suona più semplicemente come uccidi ma acquista una valenza politica, quella di reagisci, fatti sentire!

Se prendiamo come date di riferimento dello spaghetti western il 1964 di Per un pugno di dollari e il 1971 di ...Continuavano a chiamarlo Trinità nel mezzo si collocano il 1967 del film in analisi e il seguente Sessantotto. Potremmo ora aprire un lungo discorso su come la realtà influenzi il cinema e lo spaghetti western possa evolversi in tortilla western, ma ci limiteremo a constatare che le storie di Jules e Kim (il regista Giulio Questi e il montatore Franco "Kim" Arcalli) hanno sempre offerto uno sguardo lungo sulla contemporaneità. Ma, a differenza di altri film politici come quelli sceneggiati da Franco Solinas, Se sei vivo spara non è incentrato sulla rivoluzione e non porta con sé alcun messaggio di speranza. La rivolta appartiene al singolo individuo ed è resa vana dalla deprimente società in cui nasce e muore. Nel film di Questi non esistono personaggi positivi. Persino il protagonista, il messicano interpretato da un sobrio Tomas Milian, era un bandito disposto a uccidere per arricchirsi, almeno finché non fu tradito ed eliminato dai complici statunitensi. Il ritorno dalla morte ha reso l’uomo distaccato dai beni materiali ma non per questo in grado di cambiare il mondo. Non è l’invincibile eroe, il pistolero dalla mira infallibile ma un uomo solo, uno spettatore spesso passivo davanti alle reiterate ingiustizie. Anche per lui "se sei vivo spara" echeggia come uno slogan difficile da mettere in pratica.

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La congiunzione con valore condizionale "se" ci pone di fronte a una seconda possibilità, il contrario di quanto ipotizzato. Ovvero che tu possa non essere vivo. Sorvolando sulla lettura sociale (di stampo romeriano, per intenderci) e concentrandoci sui fatti, il film si apre con un cadavere che torna in vita. Una resurrezione può essere vista come la prova dell’esistenza di Dio. D’altronde l’interpretazione cristologica di tale parabola è resa palese nella scena della tortura, dove il moderno messia terzomondista è letteralmente messo in croce. Ma un morto che si rialza è anche uno zombi, un’icona del cinema del terrore. Se sei vivo spara, dunque, non è un mero western ma si contamina con varie atmosfere orrorifiche. Innanzitutto mistiche: gli indiani (figure abbastanza anomale nel nostro western) svolgono i ruoli di sciamani, padroni dell’occulto. Poi gotiche: Marilù Tolo interpreta un’ottima dark lady. Regina di una dimora grande quanto un castello, avida e scorretta, spia i suoi ospiti dalla serratura e sprona il suo uomo a essere spietato. Dorme in una stanza dalle pareti di un rosso acceso che se da un lato richiamano i film di Corman tratti da Poe dall’altro sottolineano il clima morboso in cui è avvolta la vicenda. Persino l’odio del figliastro (Ray Lovelock) trasuda feticismo e, in generale, l’intero film appare pervaso da una sessualità deviata, a volte repressa e a volte violenta. Il sadismo è l’elemento che accomuna ogni cittadino e raggiunge il suo culmine nello stupro di gruppo del ragazzo a opera di un manipolo di camicie nere. Proprio questa descrizione del profondo Sud come luogo abitato da folli richiama un altro stereotipo del genere inaugurato tre anni prima da Herschell Gordon Lewis con Two thousand maniacs! Se infine si prendono in considerazione le numerose scene gore e splatter che colorano Se sei vivo spara, l’opera di Jules e Kim può essere trattata alla stregua di un violento incubo. A onor del vero, non è l’unico spaghetti western a mescolare il genere con l’orrore, così come non è certo il solo a fregiarsi di una lettura sociopolitica, ma con ogni probabilità non esiste ad oggi un altro titolo che unisca tutto ciò in un solo grande political-horror-spaghetti-western.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 01/08/2016

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