Roma 2015 / Eva no duerme

Attorno al corpo di Evita Perón, Pablo Agüero costruisce un film foucaultiano sul rapporto tra il potere e il corpo del Sacro.

Il potere si nutre di corpi, vive nella carne e si moltiplica all’interno di essa, imponendo e replicando prassi, comportamenti, desideri.

Come ci dice Foucault, senza un controllo del corpo (e della sua sessualità) non potrebbe esistere l’autorità, perché è attraverso di esso che questa esercita la sua prima, immediata influenza. Una tensione di controllo che in certi casi si continua ad esplicare anche dopo la morte, quando le carni terrene sono ormai in balia di medici legali, imbalsamatori, trasportatori. Anche allora il corpo rimane il principale fronte di battaglia per il potere, specie se quelle carni da vive ospitavano un Simbolo, un punto di riferimento di tale portata che al momento del trapasso è pronto a trasformarsi in Sacro.

Evita Perón muore di tumore a soli 33 anni. Alla sua scomparsa è letteralmente la Leader spirituale dell’Argentina (carica creata per lei dal marito Capo di Stato), un corpo uscito vincitore da anni di battaglie politiche, incarnazione di un’ideologia che sta per conquistare la sua reliquia più sacra, un mausoleo che possa diventare Simbolo eterno. Tuttavia il potere non perde occasione di rivalsa, ed ecco che con la caduta del peronismo la salma di Evita diventa qualcosa di troppo prezioso da seppellire pubblicamente. Deve sparire. Deve finire inghiottita nel nulla. Deve definitivamente morire, quella "troia". Sguardo in macchina e sigaretta in bocca, così si esprime il generale fascista che apre Eva no duerme di Pablo Agüero, viso glaciale e voce roca di Gael García Bernal ad innescare un racconto episodico che ripercorre tre momenti della parabola percorsa dal corpo di Evita.

Imbalsamazione, trasporto, processo terroristico atto a scoprire l’ubicazione del cadavere scomparso, Eva no duerme attraversa a balzi vent’anni di storia argentina intervallando narrazione e materiale d’archivio, astrazione del corpo e ricostruzione d’epoca, ma il tutto senza intenti cronachistici. Il film di Agüero è piuttosto un viaggio nel legame invisibile che unisce il Simbolo alla sua dimensione materiale, un’esplorazione della fisicità post mortem che permane nel Sacro e dell’energia che da essa deriva. Un’energia politica e morale da cui non è estranea una dimensione apertamente sessuale, un erotismo necrofilo che come calamita attrae le attenzioni di chi entra in contatto con il corpo morto. Come ad esempio uno dei due trasportatori protagonisti del raffinato piano sequenza centrale del film, un confronto tra un vecchio soldato e una recluta che finisce per esplodere in una lite dalla plasticità estrema (non a caso espressa dal corpo martoriato da cicatrici di Denis Lavant).

Del resto tutto il film ruota attorno a quella che di fatto è una transustanziazione, plasticità della carne che si fa strumento politico nell’accesso ad una nuova Sacralità, dalla quale deriva un’ossessione di possesso che si fa necessità di toccare, baciare, plasmare quel che rimane. Peccato però che in questo viaggio ai confini dell’astrazione Agüero senta il bisogno di ritornare più volte su alcuni espedienti davvero troppo didascalici, in particolare la voice over di Bernal, cui si affida il compito di esporre il discorso metaforico del film. Di pari passo anche l’estrema cura formale della narrazione rischia di farsi maniera eccessivamente ombelicale, talmente attenta ai dettagli illuministici e cromatici da generale un paradossalmente allontanamento dalla carnalità (pulsante o mortifera che sia) che si è posta al centro del discorso filmico. L’ossessione così rischia di farsi soltanto detta, veicolata da allegorie e metafore, ma mai veramente percepita. Piuttosto quel che non si dimentica facilmente è il cupo e a tratti disperato pessimismo della narrazione, che non può che chiudersi con un riferimento al dramma del corpo che va sotto il nome di desaparecidos.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 21/10/2015

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