Roma 2013 / Considerazioni finali

Adesso tocca al cachet di Scarlett Johansson, ma è solo la notizia degli ultimi giorni, domani probabilmente sarà già qualcos’altro. C’è poco da fare, il Festival Internazionale del Film di Roma continua ad essere la nostra manifestazione cinematografica più radiografata e discussa, sulla quale si affastellano ben più che altrove scontri di opinione, polemiche, pure e semplici sparate – perché altro non sono affermazioni in cui si confonde il giudizio di una giuria che ci si aspetta essere indipendente con l’operato svolto dagli organizzatori del festival stesso. Basta gettare un triste sguardo al mondo dei quotidiani per intercettare faide mica tanto segrete, portate avanti nei giorni in un dibattito sterile, interessato, ombelicale. Ma qualcuno di questi egregi polemisti almeno lo avrà trovato il tempo per andare a vedere Zanji Revolution di Tariq Teguia, o magari O novo testamento de Jesus Cristo segundo Joao di Joaquim Pinto e Nuno Leonel? Si sarà reso conto della qualità sorprendente della selezione effettuata da CinemaXXI, del percorso offerto all’interno di un cinema così necessario e veramente contemporaneo? Quant’è perverso tutto questo vociare, che se da una parte scatena le trombe per il glamour e i tappeti rossi dall’altra fa le pulci ai conti, ai nomi, alle file, a tutto fuorché ai film. O a quelle che sono le effettive criticità di un festival nato sbagliato e cresciuto peggio, e che solo oggi inizia ad individuare una sua ragion d’essere pur reiterando limiti endemici di difficile estirpazione, nodi problematici circondati da una sterile polemica che altro non fa che ostacolare la nascita di un dibattito costruttivo incentrato su di essi. O, ancora, sui film, questi sconosciuti. Cosa fare allora? Uscire da tutta questa foschia, tenere a mente la ripetuta vicinanza con Torino, l’infelice location dell’Auditorium, l’assenza di un’identità netta che definisca e relazioni la kermesse nel panorama festivaliero europeo, e guardare direttamente e veramente all’evento cui Marco Müller ha donato una seconda vita. Partendo dal chiedersi cosa debba essere e fare un festival oggi.

Il centro della nostra riflessione quindi non possono che essere i film, il percorso espresso dalle selezioni, le tendenze, novità, i ritorni, ma anche gi omaggi e i recuperi, come il giusto spazio riservato quest’anno al peplum, ennesimo tassello di quella storia segreta del cinema italiano che Müller porta avanti dai suoi primi anni in Laguna. Ma tante altre sono le continuità con il lavoro svolto a Venezia, dalla consistente squadra asiatica ai nomi scoperti un tempo in Orizzonti e richiamati oggi in CinemaXXI (Amir Dutta, Andrey Silvestrov e Yuri Leideran, Sun Hun, lo stesso Tariq Teguia), dal sapiente uso dei premi alla carriera (quello a German e il Maverick ad uno Tsui Hark presentato da Olivier Assayas sono autentici capolavori organizzativi) al bilanciamento intelligente di genere e autorialità, un rapporto nel quale la famosa dicotomia festa/festival trova la sua più immediata e sana risoluzione (come del resto avveniva prima che tale scissione divenisse all’ordine del giorno). Non sono mancate le strizzate d’occhio al versante più glamour (il colpaccio di Hunger Games e la conseguente invasione di teenager) o i film capaci di unire qualità e ampi orizzonti di ricezione (come meglio sa fare il cinema americano quando è davvero grande, come ha fatto in questo caso Spike Jonze col suo Her), o ancora un bel lavoro (finalmente!) sul cinema italiano, con l’ottima scelta dei tre titoli in concorso (ideale trittico di percorsi, tra rielaborazione linguistica, autorialità non ombelicale e priva di retorica, e puro genere) e una buona selezione di documentari in Prospettive Italia – per quanto segregati in una ghettizzazione guarda caso demistificata dalla vittoria di Tir.

Ma quindi, escluse le criticità di partenza, è davvero tutto positivo il bilancio di questa ottava edizione del Festival di Roma? No, sicuramente no, e i tanti pregi non riescono a nasconderlo. Dove il festival di Müller ci sembra aver mancato è proprio nel Concorso ufficiale, in cui davvero troppi sono stati i film non solo deludenti ma assolutamente aridi e scevri di discorsi, esponenti di una selezione estremamente normalizzata se messa al confronto con quella effettuata da CinemaXXI. Ma allora, se proprio questo ha riservato le emozioni più grandi, non è forse questa divisione netta a dover essere rivista? Questa separazione tra cinema più conforme e fruibile e cinema straniero, sperimentale, fuori dai canoni, non andrebbe forse scardinata poco a poco? Non sarà sperimentale, ma nella sua commistione di registri Tir ci dice che forse qualche barriera sarebbe il caso di iniziare a buttarla giù. Sperando che luci e ombre di una manifestazione sfortunata inizino finalmente a creare un percorso, non possiamo che chiudere con l’elefante nella stanza: cosa resterà del festival romano quando cesserà il mandato di Marco Müller?

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 15/10/2014

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