
La cosa più fastidiosa dei discutibili premi fuoriusciti da questa settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma non è la loro sconcertante inadeguatezza (comunque parziale, per quanto il giusto riconoscimento, ad esempio, a Claudio Giovannesi e il suo Alì ha gli occhi azzurri sia rimasto in buona parte sommerso dalle pur comprensibili polemiche) bensì l’uso strategico e retorico che se ne è fatto, e che tuttora anima salotti di discussione dalla risibile onestà intellettuale. Usare Marfa Girl e E la chiamano estate per attaccare Marco Müller e delegittimare il suo operato è infatti quanto di più falsamente retorico si possa fare, e se è lecito chiedersi come tali opere (specie quella di Franchi) abbiano guadagnato la loro presenza in Concorso, resta il fatto che il discutibile esito finale non può e non deve essere impiegato per condannare una manifestazione che comunque, nel bene o nel male, i suoi punti deboli li presenta da sola, per quanto di peso e tenore ben diverso da come li si faccia passare in questi dibattiti viziatamente retorici.
Punto di partenza obbligato per tentare di tracciare un bilancio di questa edizione è la constatazione di essersi trovati per la prima volta di fronte ad una concreta ed effettiva corrispondenza tra significato e significante: il Festival Internazionale del Film diretto da Müller è stato indiscutibilmente un vero Festival Internazionale, di fatto e senza dubbi il primo avuto (finalmente) a Roma. Da questa base si può andare a discutere sull’effettiva qualità dei film proposti, sulla funzionalità di spazi come Prospettive Italia (a nostro avviso l’impasse più grande, per lo meno riguardo ai lungometraggi di finzione), sulla tenuta dell’organizzazione, ma resta il fatto che grazie a Müller e il suo staff il campo di discussione sia fortemente cambiato rispetto al passato. Connesso a tale prospettiva, il primo merito dell’ex direttore veneziano è stato quello di aver sciolto la dicotomia schizoide tra Festa e Festival, nodo gordiano risolto con un taglio netto con il passato, del quale ha mantenuto praticamente solo l’esperienza de L’altro Cinema / Extra di Mario Sesti integrandone l’eredità in un percorso personale in netta continuità con il lavoro svolto sino all’anno scorso a Venezia. CinemaXXI e Prospettive Italia sono palesemente pensate come filiazioni di Orizzonti e Controcampo italiano, ma è soprattutto nell’internazionalità e nell’esplosione “espansa” della materia cinematografica presentata che si sente la maggiore connessione con il passato.
Questo rapporto tra distacco (dalla festa veltroniana) e continuità (con Venezia) ci porta inevitabilmente a confrontarci con la domanda: serve a qualcosa una Festa del cinema, per lo meno come lo è stata intesa sino all’anno scorso? In un paese con uno dei più bassi tassi di alfabetizzazione iconica d’Europa, imprigionato in difficoltà produttive endemiche, serve davvero al cinema un red carpet popolato solo da star hollywoodiane, film presentati con anticipo di pochi giorni rispetto all’uscita nelle sale e programmi che quel poco di buono che hanno lo recuperano da festival passati? Serve davvero costruire e mantenere questa mastodontica costruzione, che solo per la sua esistenza danneggia realtà ben più utili come quella di Torino, solo per avere ospiti da mettere in vetrina e blockbuster da riciclare? Serve davvero continuare a presentare e lanciare solo un cinema popolare, anche di qualità per carità, che abbia nella conquista del pubblico di massa il suo obiettivo principale? Piuttosto che assecondare un approccio così festaiolo sarebbe forse il caso di recuperare Seneca e chiedersi cui prodest: a chi giova un evento culturale al minimo comun denominatore? A chi giova aver in primis fatto partire e poi mantenuto tutto questo carrozzone? E infine, cosa poteva fare Müller per dare un senso alla sua nomina e a tutto questo se non fare un taglio netto? Riflettere sui nuovi percorsi della settima arte e sul suo linguaggio, mostrare un cinema altrimenti invisibile, creare e alimentare cinefilia e curiosità e fame iconica in un pubblico disabituato ad un cinema altro, questa e non altre era la sola possibilità, chiudere la Festa e avviare il Festival, cercando di far crescere in un pubblico da aperitivi e sabato sera – come è quello romano – un nuovo e più maturo approccio alla macchina cinema.