Prank
L’esordio di Vincent Biron è un teen-movie malinconico e divertente che avanza fieramente controvento.

Prank significa scherzo, ma l’esordio di Vincent Biron non è affatto uno scherzo. Chi teme l’ennesimo filmetto indie provocatorio, un po’ fasullo un po’ molesto, un po’ alla Larry Clark, si trova completamente fuori strada. Quest’esordio, costato solo 5000 euro, è un film controvento, distante da mode vigenti, cinismi e aridità di tanto cinema contemporaneo. Non vuole essere un racconto generazionale, non ha le pretese di farsi appendice o manifesto di nulla, se non di momenti di passaggio, inquietudini e infatuazioni, come la prima cotta per la ragazza del proprio amico.
Quello di Biron è in fondo un teen-movie periferico, un racconto di formazione ambientato nei sobborghi dimenticati di Montréal: un mondo fuori dal mondo dove non succede nulla d’interessante. I protagonisti hanno bisogno di qualcosa che scalfisca la noia quotidiana, vogliono sentirsi vivi. Stefie, ad esempio, ragazzo grassottello e solitario che, un giorno diverso da tutti gli altri, viene avvicinato dai coetanei Martin, Lea e Sean per riprendere col cellulare le loro performances. Bravate goliardiche dal gusto squisitamente situazionista, scherzi poco innocenti dove il fancazzismo è purissimo afflato di vita: in realtà non c’è alcun obiettivo in questi scherzi, se non il piacere di un gesto che sembra fuoriuscire più dal fenomeno Rémi Gaillard che dal solito Jackass. E’ chiaro che nel 2016 la performance sia fondata sulla sua stessa riproduzione, in piena continuità con l’era youtube, social network e sharing a tutti i costi. Ma questa volta non c’è l’automatismo della rete, i personaggi vivono prima di condividere. Sentono, soffrono, ridono, hanno perfino l’istinto, la voglia, il desiderio d’innamorarsi. Tutt’altro che automi, sono creatori di situazioni impossibili, artisti senza teoria, inventori di gag fuor di sesto: fieramente marginali, che si tratti di fingersi cani o di defecare su un’automobile.
Non a caso i protagonisti di Prank ci sembrano più figli di un immaginario anni ’80 che di quello dei nostri giorni: parlano la lingua di un cinema che fu, omaggiano film, star, brani musicali di altri mondi e altri tempi. Adorano vecchi corpi anni ’90 come Van Damme o Bruce Willis e poi sono capaci di affittare (e non di scaricare) Il cavallo di Torino (sequenza tra l’altro irresistibile). Ecco, forse la cosa più bella di Prank è che Stefie, Martin, Lea e Sean non hanno abbandonato i loro corpi per farsi avatar, ma vivono in un presente alternativo, forse parallelo, ma lontano anni luce dal nostro.
Prank si scopre un piccolo film di culto, divertente, a suo modo audace, ma soprattutto libero e pieno di ossigeno. Quando Stefie si innamora di Lea il film svela le sue carte più delicate, lavora sul rapporto tra due outsiders di rara dolcezza. Speriamo in una fuga d’amore, come in un film di Wes Anderson, ma Biron si fa beffe anche di questo, lasciandoci la sensazione un po’ triste, un po’ malinconica, di un desiderio inappagato. La sensazione di sentirsi soli a questo mondo, di aver bisogno di un amico o, semmai, di una ragazza che non somigli a nessun’altra, ma brilli di luce propria: lo sguardo di Lea pare un mistero, il suo sorriso, mentre inebria il mondo, regala a Stefie il sogno di un amore, il desiderio di prendersi cura di lei, di salvarla, di custodirla...di amarla.
Prank ha allora il grande pregio di sapersi fare piccolo, familiare e dolcissimo, perché sa guardare all’altezza dei suoi interpreti, sa cosa significa non prendersi sul serio. Crede nella sottile amarezza che pervade i nostri anni più belli. “Si fanno troppi film grigi” ha detto il regista. E allora il suo Prank sa essere istantaneo, lievissimo e perfino colorato. Punk.