Lo and Behold - Internet: il futuro è oggi

Una panoramica scientifica sul mondo interconnesso e sul futuro di internet, attraversata da alcuni memorabili squarci sull'umanità.

«I monaci hanno smesso di meditare, sembrano tutti impegnati a twittare...».

È racchiuso in questa frase, pronunciata in tono ironico dallo stesso regista, il carattere dichiaratamente didattico di Lo and Behold - Internert: il futuro è oggi, documentario di Werner Herzog presentato al Sundance a gennaio 2016 e uscito da pochi giorni nelle sale italiane. Dalle prime scene intuiamo subito l’anomalia: meno intimo e radicale nelle scelte narrative, decisamente più corale e didascalico nelle consuete aperture sul mondo. Un Herzog inaspettatamente panoramico, che sotto l’intento manifesto di restituire le contraddizioni di internet e della sua affermazione nella storia finisce, tuttavia, per aprire brevi squarci sulle persone che l’hanno determinata, accompagnata e subita.

Sono questi i momenti migliori del film: il vecchio hacker arrestato e rinchiuso quattro anni in carcere – di cui uno in isolamento – per avere detonato, “per gioco”, il sistema di sicurezza di Motorola; la famiglia alle prese con l’ossessione del ricordo della figlia, decapitata da un incidente stradale e le cui foto sono circolate selvaggiamente su internet a partire dalla sera stessa della sciagura – e che Herzog, in piena coerenza con il suo sguardo, decide di non mostrare, fermandosi sulla soglia del dolore; i pazienti, isolati dal mondo in una clinica di riabilitazione, che tentano di disintossicarsi dalla loro pericolosa dipendenza da internet, computer e videogame; la donna che, a causa di una malattia cronica, vive da anni nella foresta, lontana dalle radiazioni delle reti wireless. Lampi che, tuttavia, finiscono per essere risucchiati da una narrazione per lo più informativa che, col passare dei minuti, si stabilisce su un piano convenzionale annacquato da tecnicismi e scientificità.

La divisione in capitoli accentua il didascalismo, serve a mettere dei paletti, a far sì che la materia che Herzog tratta non gli sfugga mai di mano. È fin troppo controllato, questo Lo and Behold, per accettarlo senza esitazioni nel pantheon della filmografia herzoghiana. Le digressioni planetarie sui brillamenti solari e le divagazioni dickiane sulle intelligenze artificiali – e su internet che sogna se stesso – fungono da diversivi. La fobia di internet è appena accennata, affiora in superficie: si avviluppa nelle ossessioni delle persone, non nelle teorie quantiche che Herzog sembra sorvegliare. Così, i monaci che non pregano più, perché troppo impegnati a twittare, accentuano un inaspettato e presidiato moralismo. Scienziati, ingegneri, astronomi e informatici, quasi tutti accademici, sostituiscono le anime che abitano stabilmente il cinema herzoghiano. Si stabiliscono, al largo e ben visibili, come boe di sorveglianza, argini alla foga di voler raccontare tutto, di superare i limiti stabiliti dallo schermo.

Herzog, lui sì, ha paura di internet. Per questo, non scende mai negli ignoti spazi profondi, negli inferni spaventosi delle psicosi degli altri. Non si lascia sorprendere dalla materia che tratta, come succede sempre, ma cerca di controllarla. Pretende di raccontarci il futuro, quello che succederà, piuttosto che il presente, quello che succede. È uno sguardo proiettato in avanti, che sfiora soltanto le storie cui passa vicino.

Per questo, ne esce una visione facile, profetica e profondamente pessimista, su un futuro post-apocalittico. Il destino dell’umanità, ci suggerisce Herzog, sembra essere dominato dalle macchine che lei stessa ha generato, dall’internet of things, con cui decide di chiudere il film. Quasi a volerci invitare, assieme a lui, a prenotare un biglietto di sola andata per Marte.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 18/10/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria