Les Beaux Jours d'Aranjuez

La bellezza del film risiede nel mistero che lo avvolge, come fosse un atto mancato: il tentativo (fallimentare) di elaborare una perdita del passato.

Davanti al foglio bianco si spalanca un mondo pieno di infinite possibilità. Parigi è deserta come dopo un’apocalisse. La macchina da presa si sposta lentamente altrove, allontanando la vertigine del vuoto (creativo?), fino a condurci in una villa in campagna. Uno scrittore sta per iniziare il suo romanzo. La stanza in cui si trova si affaccia su un giardino che ospita una bella terrazza incorniciata dagli alberi. In questo campo vuoto si materializzano per incanto un uomo e una donna. Forse amici oppure amanti, non è dato saperlo, i due iniziano un gioco fondato esclusivamente sulla parola, con la consapevolezza di vivere quel momento come se fosse l’ultima estate (delle loro vite o del mondo?). L’oggetto della discussione varia nel tempo, pur tornando spesso su due argomenti in particolare: l’amore e l’estate. I ruoli dei due sembrano seguire uno spartito preciso: è soprattutto l’uomo a fare le domande, spinto da una curiosità evidente nei confronti della donna, di cui vorrebbe indagare la sfera sentimentale - sessuale, il ricordo degli amori e della prima volta, il rapporto con il sesso e con il piacere. La donna, dal canto suo, accetta di buon grado le attenzioni dell’uomo, manovrandolo sottilmente: le sue risposte non sono quasi mai quelle attese o previste. C’è sempre un dettaglio, un particolare che svia dal punto di partenza portandolo altrove, verso linee di fuga talmente personali e apparentemente insignificanti da frustrare le aspettative dell’uomo. Si parla tanto, tantissimo eppure il dialogo sembra farsi sempre più debole, come se in fondo non ci fosse molto da dire, o meglio, da condividere. Per quanti sforzi possa fare lo scrittore, i due restano lontani fin quasi a chiudersi in una serie di monologhi. È un gioco che potrebbe andare avanti per ore proprio perché manca una direzione. Non siamo di fronte ad un banale dialogo estivo intriso di nostalgia, che significherebbe di per sé, per la portata emotiva dei ricordi, né tantomeno assistiamo ad un corteggiamento dall’esito incerto. Si sta sulla scena quasi per caso, procedendo per tentativi ed omissioni. Per ogni parola pronunciata ce ne sono altrettante che restano nella mente dello scrittore, oppure che intervengono in un secondo momento ad aggiungere informazioni. Si cerca costantemente l’espressione migliore, quella più chiara che possa centrare il cuore del discorso. Ma poi, nella lunga serie di variazioni, alternative e traduzioni (dal tedesco al francese) tutto si perde.

La bellezza del film risiede proprio nel mistero che lo avvolge, come fosse un atto mancato: il tentativo (fallimentare) di elaborare una perdita del passato. Viene in mente il film precedente di Wenders, Ritorno alla vita, con il quale condivide l’uso del 3D, il ruolo primario delle stagioni (inverno ed estate), la figura dello scrittore, e soprattutto la sua natura sfuggente. Lì dettata dal torpore invernale e dalla negazione dell’elaborazione artistica (le opere letterarie di Thomas restavano sempre fuori campo, così come i suoi sentimenti), qui al contrario dall’assenza di uno sfondo che ci permetta di comprendere le motivazioni che si celano dietro l’opera letteraria. Per Wenders la scrittura pare un mistero irrisolvibile, sia quando si tratta di seguire la vita di uno scrittore sia quando è l’opera stessa ad occupare il film. Aspetto paradossale per due opere che adottano la prospettiva tridimensionale, e che nel tentativo di sfondare la quarta parte e dunque di voler vedere meglio e più affondo, abbracciano/affrontano l’opacità dei sentimenti. In questo corpo a corpo con la parola, scritta e parlata, in cui tutto si fa astrazione, lo scrittore assume anche il ruolo di regista: sceglie il colore dei vestiti, interviene direttamente sulla colonna sonora con l’ausilio di un vecchio jukebox, coreografa i corpi nello spazio, eppure qualcosa gli sfugge fino quasi a perdere il controllo della sua opera, di cui ad un certo punto pare disinteressarsi allontanandosi dalla villa, in un desiderio se non di fuga certamente di libertà. Ma senza sterili giochetti metalinguistici: la riflessione non risiede tanto nell’eterna e stanca dialettica tra verità e finzione quanto piuttosto nella messa in scena del dialogo a due, di cui vengono offerte almeno quattro possibili varianti: la carrellata circolare; il campo-controcampo stretto sui corpi; il campo medio, la mezza figura di profilo. Come fosse un esercizio di stile sul canone di un certo cinema francese (da Rohmer a Resnais) ma senza la sublime leggerezza del primo né le vertigini teoriche del secondo. Si sta nel mezzo, incerti insieme con i due personaggi, consapevoli che dietro il piccolo mondo costruito dallo scrittore-demiurgo si nasconda un cuore traumatico non verbalizzabile ma pronto ad emergere in ogni momento, attraverso la musica, che non a caso tratta quasi sempre d’amore (da Perfect Day di Lou Reed a Into My Arms di Nick Cave, eseguita live), oppure con movimenti di macchina repentini che scuotono l’immagine, portandosi via quel che resta di un set e di un’ipotesi letteraria. L’apocalisse interiore: “L’amore è sempre infelice”.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 03/09/2016

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