Largo Baracche
Uno sguardo autentico tra i stretti vicoli dei Quartieri Spagnoli accompagnati da Gaetano Di Vaio e dalla sua batteria buona di ragazzi sbandati.

Il lavoro di sensibilizzazione di Gaetano Di Vaio (e Figli del Bronx), teso a rappresentare il sottobosco ambientale della realtà identitaria popolare napoletana, ha una lunga storia risalente a ben dieci anni fa. La nostra rivista ha da sempre dedicato, con piacere, un particolare spazio al carattere documentaristico dei lavori dei Figli del Bronx. Dopo Il loro Natale (lavoro necessario per definire la drammaticità del carcere) ed Interdizione Perpetua, Di Vaio scende di nuovo in campo come regista, attraversando e filmando la strada violenta e povera dei Quartieri Spagnoli, registrando le voci ed i volti dei ragazzi che lì vivono, alla ricerca della sopravvivenza e dell’antighettizzazione. Largo Baracche, oltre che il titolo del film, è anche una piazza che nasce nel cuore dei Quartieri, luogo che porta marchiato a fuoco il logo del posto malfamato fin dalle sue origini. Un cuore labirintico fatto di stretti vicoli e panni stesi, ragazzi di strada, storie di droga, boss e vendette violente. Di Vaio riprende le storie di un gruppo di ragazzi, una batteria buona (non di quelle che va a fare il morto), una collettività composta da vite giovani ed emarginate. Il regista si pone sullo stesso loro piano, d’altronde è per principio d’appartenenza uno di loro, e li lascia parlare, lasciando che si raccontino. E’ dalle loro stesse parole, dai loro stessi sguardi affranti di fronte a taciti muri di gomma, che nascono le loro storie di riscatti per dei futuri già compromessi in partenza, ragazzi e ragazze che son nati su un unico binario e che continuano a viaggiare sullo stesso, stretti da un’immobilità che è paura di evasione. Ponendosi sul loro stesso livello, i ragazzi si sentono sicuri, liberi di esprimersi, il documentario gode di un’autenticità disarmante, ponendo delle domande che avvicinano al bivio di evoluzione, nel cambiamento del loro stile di vita orientato verso l’onesta di un lavoro serio, o involuzione, continuando quindi a scegliere la ferocia dell’habitat di appartenenza. L’emarginazione che si scontra contro le regole del benpensante, della borghesia accusatoria pronta a puntare il dito biasimante, facile all’accusa ed alla disparità propria del pregiudizio. Attraverso una selezione (e scelta) musicale straniante, il documentario avanza tra il peso della realtà rappresentata e l’estraniazione aliena di una musica compatta, elettronica, popolare (rap) che si appiccica sull’identità oggettiva del documento mostrato per trasportare il tutto attraverso slanci musicali quasi metafisici. La canzone (molto toccante) cantata da Pietra Montecorvino e ripetuta in loop, in una «reiterazione permanente di dolcezza e solidarietà» (Fabio Gargano - musicista), un testo canzone che si nutre della poesia di Massimo Troisi ed Enzo Decaro, Angiulillo, possiede il significato chiave dell’intera Storia dello scugnizzo. Il testo ci racconta dell’amore tra un figlio menomato e la propria madre che darebbe le sue gambe per farlo camminare, ma la collettività non muove un dito per aiutarla. Una menomazione di nascita e d’appartenenza ad una società anch’essa altrettanto menomata, incapace di restituire dignità e prospettive ad una categoria che preferisce non guardare. E se gli altri non vogliono posare lo sguardo, per paura o per peccato, nei confronti di un documentario come Largo Baracche noi non lo facciamo, lo guardiamo ben vigili, ad occhi aperti e mente attenta, pronti noi stessi a puntare il dito contro chi volge lo sguardo altrove.