La-bàs – Educazione criminale

Un profondo, lacerante, senso d’impotenza. È questo il fardello che ci accompagna dopo la visione di La-bàs – Educazione criminale, storia di criminalità in terra campana, storia vecchia, potremmo supporre. Ma la nostra esperienza, figlia dell’attualità e delle precedenti visioni, ci conduce in errore, perché Guido Lombardi, regista dell’opera, ci pone dinanzi alla storia comune ribaltandone completamente il punto d’osservazione; e allora un po’ come con lo Scorsese di Goodfellas, veniamo trascinati nel sottobosco della manovalanza criminale, nella terra dei commessi e dei tirapiedi, degli sfruttati del crimine, dei clandestini dello spaccio. Una storia interamente dalla carnagione scura quella narrata, che fissa l’obiettivo su un gruppo di africani trapiantati a Castel Volturno, figli illegittimi della camorra, schiavi di essa prima che complici. Una lotta per il territorio e per la ricchezza derivante dal mercato della droga, ma prima ancora uno scontro etnico, nel quale l’efferata spietatezza dei Casalesi condurrà alla meno invidiabile delle vittorie.

Yssouf è un giovane appena giunto in Italia; il suo sguardo è ancora inebetito dal carico di speranza che lo ha spinto al viaggio, nel desiderio d’incontrare almeno parte di quella fortuna che allo zio Moses, che da anni ormai ha lasciato l’Africa, ha visto abbracciare. Basterà un tempo brevissimo – tradotto nella diegesi del film in pochissime sequenze – per rendersi conto della fragilità delle sue vacue aspettative, dell’utopia del suo immaginario; un immaginario entro il quale i vestiti di marca non erano la diretta e tangibile conseguenza di una partita di coca venduta ad un buon prezzo, né una macchina di lusso macchia indelebile del sangue versato. Una vita da artigiano in Nigeria è il suo desiderio, quarantamila euro da guadagnare per potersi permettere un macchinario con cui realizzare le sue opere, il tramite per raggiungerlo. Moses è oramai integrato nella macchina criminale, sempre pronta a inghiottire chiunque non sia disposto a vedersi nuovamente assalire dal vortice della povertà, dalla quale con tenacia ci si è liberati. Ma Yssouf non è disposto a cedersi senza batter ciglio, si dimena, pronto a fronteggiare ostinatamente l’ordine prestabilito, cavaliere in lotta contro i mulini a vento, costretto a piegarsi davanti alla ferocia della disonestà, a farsi operaio del crimine, ingranaggio nella catena della droga.

Settembre 2008, Castelvolturno. Sei africani e un italiano perdono la vita dopo uno scontro a fuoco che ha l’odore macabro dell’attacco a sfondo razziale prima ancora che criminale. Partendo dal funereo orrore di questi fatti, il – fin lì – documentarista Guido Lombardi scrive la sceneggiatura di La-bàs – Educazione criminale; storia di immigrazione e criminalità. Un “Gomorra nero” qualcuno lo definirà, ed effettivamente i punti di contatto con la pellicola di Garrone non si limitano all’ambientazione campana né al racconto criminale. Lombardi, così come il regista romano, è abilissimo nel tenere bassi i toni di un contesto che urla già per sua stessa natura, ed è in questa direzione che l’assenza di scene madri, di voli pindarici e pretese autoriali fuori contesto contribuiscono ad erigere una narrazione asciutta ma tagliente, che senza fermate inopportune giunge dritta al punto d’approdo. Il finale, la macelleria messa in atto dai casalesi, è l’unico momento in cui le frequenze della spettacolarità si permettono di far capolino nell’immagine, ma non c’è ignavia né mancanza di coraggio in questo: c’è la scelta di non urlare più del necessario nel desiderio di farsi ascoltare. Che sia stupore, impotenza, fascinazione o disgusto è irrilevante, la commistione di stati d’animo prende il sopravvento, portandoci per mano attraverso uno stato ipnotico di crudele riflessione.

Ma ciò che si è fin qui detto è l’analisi di un pacchetto mostrato oramai alla sua forma compiuta, ma il percorso che ad esso ha condotto può risultare affascinante non meno della sua completezza. La-bàs mostra connotati neorealisti se si analizza il suo corpo attoriale, formato nella quasi totalità (fanno eccezione due interpreti) da non professionisti, salvo calarsi nei panni della più consueta delle opere sotterranee se sviscerata sotto il piano produttivo. Eskimo e Figli del Bronx ci hanno offerto questa possibilità, approfittiamone.

Autore: Marco Giacinti
Pubblicato il 30/12/2014

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