La sua giornata di gloria

Correva l’anno 1968 e con esso seguivano i dibattiti politici, le teorie rivoluzionarie di cambiamento sociale, le proteste lecite e gli attacchi terroristici, le battaglie in piazza tra diverse fazioni divise da barricate troppo solide per essere infrante dal buonsenso dialettico; artisti, musicisti, operai, sindacalisti, politici, intellettuali e cineasti, gente normale, malfattori, anarchici, poliziotti, figli del popolo e soprattutto studenti, tutti partecipavano, tutti nel proprio modo, al fervente dibattito. Periodo di cambiamenti e di discussione, decade di novità artistiche. La Nouvelle Vague e il suo teorico decalogo ontologico trovava espressione nelle pagine dei ‹‹Cahiers du cinèma››, critici che discutevano pellicole adottando lo stesso identico punto di vista di chi il cinema lo faceva veramente: Godard, Rohmer, Truffaut, Rivette, Chabrol, giovani che dall’inchiostro della carta stampata cominciarono ad impressionare metri e metri di pellicola in cerca della propria chiave di lettura su un mondo in cambiamento. Anche in Italia nascevano gruppi di discussione e riviste specializzate nella dialettica politica. ‹‹FilmCritica›› era una di queste. Edoardo Bruno, facente parte della rivista, volle misurare la distanza tra le parole e la pratica girando il suo primo lungometraggio, La sua giornata di gloria. Adottando metodi di messa in scena e campi di discussione di artisti che l’avevano preceduto (La cinese di Godard è del 1967), volle provare, riuscendoci, a fare un film che discutesse del suo preciso momento storico e delle dinamiche di preparazione, analisi ed azione di alcuni gruppi intellettuali che si dibattevano per ideali (utopici?) di democratizzazione populista.

In una città del futuro (Roma?) anche il Partito Unico della Classe Operaia è perfettamente integrato al “sistema”, in una società che impedisce ogni forma di dibattito e ogni tentativo di ribellione. Un gruppo di giovani cerca la protesta ma durante un’azione, Claude, uno dei giovani rivoluzionari, viene ucciso davanti a Marguerite, la sua ragazza. È Richard, senza volerlo, ad aver fornito informazioni alla polizia… Per dimostrare la sua buona fede, visto che i compagni lo sospettano di tradimento, Richard organizza una rischiosa azione terroristica. Ma quando è il momento di agire, in quello che dovrebbe essere il suo giorno di gloria, Richard è colto dalla paura e se ne resta tra le braccia di Marguerite. Senza di lui l’azione fallisce…

“Andate al cinema per resistere, non rimanete passivi. Siamo contro gli inganni perché vogliamo la fantasia“: con queste parole Philippe Clementi si rivolge allo spettatore (scene prese in prestito da alcuni rush non montati del precedente film di Clementi realizzato con Bertolucci, Partner) nel prologo che introduce l’inizio del racconto. Cinema come discussione attiva dello spettatore, non più falsa illusione ma traguardo cosciente di sguardi tesi verso il cambiamento. Si cita Brecht, la sua falsa illusione, la possibilità attoriale di trascendere il personaggio dimostrandosi uomo che interpretata una figura che deve far ragionare lo spettatore. Film molto parlato, discusso e a nostro parere mai discutibile, che viene cadenzato da antefatti di un epilogo mostrato a priori. Si raccontano le storie e le riflessioni di alcuni ragazzi che comporranno il nucleo dell’operatività tanto vagheggiata e teorizzata ma mai intrapresa. Si passa alla “Lotta”, che in questo caso confina con il rapporto con altri piccoli gruppi di intervento, se ne discutono le modalità e con esso tutte le possibili enunciazioni didascaliche che accompagnano un intervento di azione diretta. Il tutto si chiude con il “Tradimento” dell’organizzatore dell’azione terroristica che preferisce ripararsi tra le braccia di una donna mentre i suoi compagni affrontano la disfatta dell’intero piano. Splendido questo finale nel quale, un uomo e una donna, partecipanti attivi dell’organizzazione del piano terroristico, si abbracciano mentre nel fuori campo si sentono le urla e gli spari di compagni portati all’intervento da loro stessi, che preferiscono amarsi e rifugiarsi tra il caldo corpo dell’amore anziché combattere per qualcosa che non riescono bene a decifrare. Sarà passione, sarà ardore e forse anche ribellione, ma l’infamia del loro tradimento si consolida nella dolce effusione di un amore. La frase di chiusura di Brecht, “Noi che abbiamo voluto sulla terra edificare la gentilezza non potemmo essere gentili”, apparsa attraverso una didascalia dopo il lunghissimo abbraccio reso sempre più carnale e protettivo dagli incessanti rumori bellici del fuori campo, è troppo classificatoria per una situazione di aperta discussione, ciò che manca è l’interrogazione che l’enunciato potrebbe sottintendere e, con esso, la forza che una simile domanda riuscirebbe ad avere nella coscienza di chi la legge dopo l’intensità di un simile abbraccio.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 13/08/2014

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