La luce sugli oceani (The Light Between Oceans)

Con il suo terzo film Cianfrance cerca di raggiungere maggior maturità e controllo espressivo, ma il melò a cui arriva si rivela piuttosto un paludoso passo falso.

Ambientato in un’isola rocciosa e spoglia, circondata da un mare burrascoso e tormentata dal vento umido, La luce sugli oceani è un melodramma contratto, intento a rappresentare attraverso le asperità degli elementi naturali il turbine di emozioni e paure che si nasconde nel cuore dei suoi personaggi. Uno scarto notevole rispetto ai primi due film di Derek Cianfrance, piccole elegie del sentimento in cui i protagonisti cercano di convivere con un’interiorità che li scuote e trascina, un sentire incontenibile che alimenta una forte e riuscitissima empatia tra personaggi e spettatore.

Con La luce sugli oceani invece Cianfrance sembra volersi allontanare da moduli espressivi così intensi, auspicando forse ad una maggior maturità e ad un controllo più attento di stile e contenuto. Tuttavia quello che poteva essere un passo in avanti, un melò compresso nell’autocontrollo dei personaggi e comunque vivo, caldo, si rivela piuttosto una vera e propria caduta, un tuffo nel vuoto dentro le maglie di un triangolo sentimentale delle cui geometrie Cianfrance perde subito il controllo.

Trascorsa una prima parte di indubbia efficacia introduttiva, che bene lavora sugli ambienti a disposizione e sul volto teso di Michael Fassbender, il film arriva a metà corsa perdendo ogni lucidità e forza, vittima della macchinosità dei passaggi narrativi ma soprattutto privo di uno sguardo deciso che possa fare da guida in quella che è diventata una vera e propria palude di drammi sfociati nel sentimentalismo.

Così il film affonda, pesantissimo, senza che i pochi, riusciti momenti di cinema riescano a salvare l’intera operazione. E mentre la progressione narrativa si dilata, e le debolezze di messa in scena si fanno più evidenti, a poco serve il fantasma bellico che accompagna tutto il racconto. L’omonimo romanzo di M. L. Stedman, da cui Cianfrance trae il suo peggior film, offre infatti gli elementi per intravedere con facilità l’onnipresente spettro del trauma bellico, un orrore così totale e indelebile da costringere chi lo ha subito a vivere per l’appunto come Giano, il dio bifronte da cui prende il nome l’isola di Janus Rock e il faro al centro della storia. Come la luce del faro delimita il confuso limitare tra Oceano Indiano e Oceano Antartico, così l’eredità della guerra piega gli sguardi di Tom e Isabel indietro nel tempo, scindendone l’esistenza tra passato e futuro. Peccato però che il film sottolinei questo sistema di simboli in tutti i modi possibili, fallendo nel contempo ad evocare il coacervo di sentimenti e sofferenze che sospinge la coppia protagonista nelle sue azioni.

Il dolore del melodramma resta così a distanza, spiegato didascalicamente ma mai realmente trasmesso, vittima di un film indeciso, scollato dai propri personaggi, lontano dall’esplosione di emotività che alimentava e giustificava i due lavori precedenti.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/09/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria