Jia Zhangke: un gars de Fenyang

Il documentario su Jia Zhangke è una grande lezione di cinema e di vita

Nel bellissimo articolo di Marie-Pierre Duhamel su A Touch of Sin, apparso su Mubi ai tempi del Festival di Cannes 2013, si mette a fuoco il confronto di Jia Zhangke con i fantasmi del (suo) cinema. Per la prima volta nella sua carriera Jia affronta il concetto di memoria, da sempre centrale nel suo corpus filmico, da una prospettiva differente. Non solo discorso sullo spazio come indagine “archeologica” di luoghi violentati dal progresso o trasformati dal/nel tempo, ma anche intimo dialogo a più voci con la storia cinematografica del suo paese e con i corpi del proprio cinema, richiamati su un set mai tanto frammentato ed “esemplare” (nella copertura geografica), a testimoniare i cambiamenti della società cinese. Quelle trasformazioni sociali ed economiche, ampiamente pre-viste nelle opere precedenti e oggi tristemente reali. Ed è forse per questo che per la prima volta Jia sente la necessità di superare quel sublime connubio di fiction e documentario per addentrarsi nel cuore del mito, rappresentato da uno dei generi più riconoscibili della tradizione cinematografica cinese: il cinema di arti marziali. Così, davanti all’impossibilità del cinema di incidere sul reale si oppone, come una forza uguale e contraria, una maggiore spinta verso l’artificio del cinema, filtrato dalla prospettiva mitica del genere, di cui si ripropongono alcuni archetipi, come la figura del cavaliere errante, oppure la donna armata di coltello. La riflessione va poi allargandosi ai set che avevano ospitato le opere precedenti di Jia. Una ricognizione necessaria nella situazione-cinema dell’autore che sembrava anticipare un cambiamento. Poi puntualmente verificatosi, ma non sul piano formale: dopo alcuni film regolarmente distribuiti Jia si scontra con la censura, che gli blocca l’uscita di A Touch of Sin. In sostanza si ritrova, improvvisamente e dopo un Leone d’oro, ad essere un cineasta clandestino.

Il sorprendente documentario di Walter Salles parte da quest’ultimo film, fondamentale per comprendere il ruolo che il cineasta occupa nella Cina di oggi, e dunque la sua condizione di regista e uomo. Una condizione fieramente indipendente (tanto dal punto di vista economico che artistico) eppure marginale, al punto da fargli dire, in un momento di sconforto, di non sapere se continuare a fare cinema. Per fortuna resta un caso isolato: al contrario nel corso dell’opera emerge la sua natura di regista ostinato e lucidissimo, quando ad esempio lo vediamo mentre attraversa i luoghi più riconoscibili dei suoi film, ormai mutati, oppure quando ricorda le difficoltà incontrate durante le lavorazioni (si pensi in particolare a Still Life, realizzato con una troupe ridotta all’osso e con una telecamera digitale di scarsa qualità). E così, davanti alla carrellata di estratti filmici non si può non provare un sentimento di ammirazione, per la straordinaria capacità profetica di Jia Zhangke, e di commozione nello scoprirsi, insieme con lui, invecchiati di qualche anno. Gli spezzoni vanno allora a costituire una memoria tanto del cinema quanto dell’uomo. Una memoria affettiva vera e propria non diversa dai ricordi familiari. Non a caso nel film le due dimensioni si intrecciano costantemente, come quando si ricorda delle preoccupazioni paterne per i contenuti “reazionari” di Platform, oppure quando si racconta la genesi di The World, influenzata dall’esperienza di Zhao Tao, attrice feticcio e da qualche anno moglie di Jia. Perché quel che preme di più a Salles/Jia (come d’altronde evidenziato dal titolo che ricorda la città natale, Fenyang) è il racconto intimo dell’uomo, dalla sua infanzia fino ai giorni nostri. A Touch of Sin è l’approdo inevitabile di questo lungo viaggio, e al contempo il contesto naturale dal quale pensare al passato. In fondo, malgrado le innumerevoli differenze, A Touch of Sin e Un gars de Fenyang sono lo stesso film: entrambi condividono uno sguardo retrospettivo sull’oggi, da intendere non come via di fuga, ma al contrario come necessaria rivendicazione di una memoria non riconciliata che interroga il presente.

E’ per questo che pur riconoscendo i meriti di Walter Salles siamo portati a pensare al film come ad un’opera del cinese più che del brasiliano. Non solo un documentario sulla sua figura, quindi, ma un sincero e a tratti doloroso autoritratto. In questo senso si impone con forza inaudita il momento in cui Jia si lascia filmare mentre si commuove pensando al padre. Una sequenza tanto inaspettata quanto, forse, inevitabile in un’opera che, senza timore né ambiguità, mostra un uomo mettersi a nudo davanti alla macchina da presa. Una grande lezione di cinema e di vita.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 24/10/2014

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