Il Castello

La terza opera, firmata a quattro mani, dai documentaristi D'Anolfi e Parenti, riflette sulla responsabilità dell’esercizio del potere sul transito identitario

Il Castello (2011) è la terza opera firmata a quattro mani dalla pluripremiata coppia di registi, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti . Gli stessi di altri gioielli del panorama documentario internazionale, come il successivo L’Infinita fabbrica del Duomo , e in concorso alla 73ma Mostra del Cinema di Venezia col film Spira Mirabilis .

Il titolo kafkiano allude all’impenetrabilità delle logiche e delle strategie del potere, fondate sull’insindacabile regime di controllo, che investe in questo caso tutto quanto e tutti coloro valichino la frontiera, ovvero lo scenario di tensione post 11 Settembre 2001. Ciò premesso, l’aeroporto intercontinentale di Malpensa viene indagato come un microcosmo che sancisce le proprie regole lungimiranti e preventive, pur mostrandone le falle.

La narrazione visiva è divisa in quattro capitoli, le quattro stagioni che scandiscono un anno di osservazione diretta all’interno dell’area aeroportuale.

Un calendario di contraddizioni e paradossi di principio, dal vago sapore kieslowskiano.

Prologo. mentre le porte scorrevoli d’accesso al Terminal 1 sono in tilt, viene lanciato in filodiffusione lo stato di allarme. Una valigia abbandonata, dunque sospetta, è prontamente raggiunta e isolata da un agente speciale, equipaggiato come un astronauta col respiro pesante sotto l’enorme casco di protezione, dall’incedere a tentoni su una superficie aliena. In effetti, ci apprestiamo ad esplorare rete e intrecci di un pianeta semisconosciuto, qualora gli scanner e i metal detector ci abbiano sempre riconosciuti come elementi sicuri.

La suprema tecnocrazia della torre di controllo giganteggia col suo design da Enterprise e fa il paio con il controcampo del panorama di luci lontane, che nell’immensa oscurità, si stagliano illusoriamente come una costellazione nell’universo.

Dunque, Inverno – Arrivi. La stagione (la più lunga e variegata nell’economia del film) di controlli a tappeto.

Un piano-sequenza di camera – car, registra la perlustrazione (i giri apparentemente a vuoto sulla complessa segnaletica orizzontale) dell’immensa pista di atterraggio, innevata e svanita nella nebbia fitta.

La traiettoria visiva, già alienante per lo sguardo smobilitato dello spettatore, è ulteriormente confusa dall’accavallarsi delle linee radiofoniche interne che confermano l’una all’altra l’avvenuto accertamento della viabilità e reiterano la prescrizione: sicurezza, sicurezza, sicurezza.

Mentre le notificazioni (da dove? per dove? in quanti? per quanto?) sono screen split agli sportelli vetrati dei gate, le perquisizioni e gli interrogatori in separata sede sono ripresi con la camera ad altezza pari alla seduta di chi è controllato, ma al contempo ribassata rispetto al personale di controllo, in piedi, per lo più con le spalle verso l’obiettivo ( come nella classica estetica cinematografica, le posizioni e le unità di potere non rivelano mai il volto, ma si dissimulano nell’anonimato dell’essere un organismo unitario di componenti). Pertanto, valga anche per lo spettatore, affatto in prospettiva privilegiata, il personale di controllo non è tenuto a spiegare (ancor meno a giustificare) ragioni e procedure del lavoro che svolge. La privacy e la sua violazione sono concetti flessibili, piegati ad una superiore legittimità: una maggior sicurezza comporta un sacrificio di libertà e viceversa. Ecco allora, che il documentario si premura di mostrare l’aporia del teorema appena esposto, raccordando sequenze in cui all’affermazione “non chiedo di leggere i tuoi sms o altro”, fa seguito il contrordine “posso farlo!”. È possibile stabilire di caso in caso cosa è privacy e cosa no, lì dove nulla è affidabile per come si mostra. Perché, infatti, proprio lì dove vige un sistema ultra pervasivo di vigilanza audiovisiva, canali a circuito chiuso e dispositivi a perizia diretta, solo la violazione è esemplare per sgominare menzogne invisibili all’occhio, come al tatto, ma non inimmaginabili all’istinto e all’esperienza.

A scovare ovuli di cocaina nello stomaco di un ragazzo dai lineamenti dolci e dagli occhi atterriti, sedicente benestante, in vacanza premio, sarà solo il bisturi chirurgico della pratica sul campo, “classico, come al solito”. Con lo schermo dei raggi X in primissimo piano, il trafficante ancora nega l’evidenza e si annulla davanti all’evidenza, confessa di essere costretto dalla miseria. Ma noi spettatori, gettatati ora in una sorta di Gattaca, a quale evidenza dovremmo c(r)edere?

Primavera – Sicurezza. Il cielo schiarito e sereno annuncia che questo è il tempo del risveglio della natura (quella già morta o moribonda delle partite di aragosta e pellicce pregiate, disimballate e ispezionate con cura per l’antidroga); il tempo delle battute di caccia alla cieca di poiane, corvi, “rondini bastarde” che eludono le registrazioni dei richiami della specie; le perlustrazioni a suon di scariche di pistola a vuoto nell’aria, per stanare la fauna incosciente sulle piste di decollo. È insomma il tempo delle simulazioni di difesa contro l’ignoto, contro un pericolo da immaginare; i fuori – tempo degli addestramenti degli agenti di polizia contro quanto di più insospettabile può insinuarsi dietro la pianificazione di un attacco terroristico. Tutti siamo esposti agli inganni sempre in agguato, in attesa. Ma l’attesa da ingannare è il vero paradosso.

E allora, Estate – Attesa. Autoconclusivo, trascorre il pedinamento di una donna di mezza età, che occupa, abita indisturbata un personalissimo The Terminal. La spaziosa toilette, accidentalmente deserta, è ideale per sbrigare la cura personale (cucinare, lavare i panni, farsi lo shampoo) tutto si presta più che adeguato al servizio (grandi lavandini, innumerevoli prese di corrente, potenti erogatori d’aria calda) e soprattutto nessuna inquadratura rimanda l’affissione di un divieto di arbitraria e prolungata presa di possesso degli ambienti. Una giornata volge così quasi al termine, tra una capatina all’accogliente cappella per i fedeli e i ponti di passeggio panoramico lungo le gallerie vetrate. E perché anche questa donna, discreta e innocua, non potrebbe essere sentinella di un qualche crocevia, direttamente nel cuore della roccaforte?

Quel medesimo confine da monitorare, dichiarare, denunciare pubblicamente ad ogni cavillo, può divenire tacita appropriazione di ruolo, identitaria.

Infine, Autunno – Partenze. Permessi di soggiorno, richieste asilo, rimpatrio obbligatorio, ma anzitutto rilievo di impronte digitali, aggiornamento di foto tessere. È il breve iter di (ri)costruzione ad hoc di una identità da archivio comunitario; Comunità Europea, spesso sinonimo di espulsione d’ufficio dal territorio calpestabile, ma non da quello virtuale, che continuerà a rimpallare i profili fagocitati nei moloch telematici di registrazione. Profili digitali che senz’altro torneranno, smaterializzati nel corpo e nell’anima, ad implorare l’ignoranza di questi sè precedenti.

Nel suo supposto complesso e inespugnabile Il Castello pare condurci a riflettere proprio su questo, sulla questione della responsabilità dell’esercizio del potere sul transito identitario e sulla affidabilità del documentabile, che è potere e responsabilità dei documentaristi.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 11/09/2016

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