I Called Him Morgan
Il documentario sulla vita del trombettista jazz Lee Morgan è un ritratto corale che non riesce ad incidere come avrebbe potuto.

Dopo My Name is Albert Ayler (2006), documentario molto apprezzato sulla vita dell’omonimo sassofonista attivo tra gli anni Cinquanta e Settanta, il regista svedese Kasper Collin torna alla New York dell’hard bop e del free jazz per raccontare la storia di un altro grande musicista di quel periodo, realizzando I Called Him Morgan, visto nel fuori concorso di Venezia 73.
Morgan è Lee Morgan – trombettista di fama mondiale ingaggiato sin da giovanissimo dalla big band di Dizzy Gillespie e passato poi ai Jazz Messengers di Art Blakey – musicista prodigioso, talento dal futuro radioso, interrotto bruscamente dalla morte prematura, a soli 33 anni, per mano della moglie Helen Joyner Crawford.
Per raccontare la sua storia, Collin sceglie di partire dalla fine: dai titoli di giornale che annunciano la morte del jazzista e l’arresto di Helen, dalla tragedia in quel momento ancora inspiegabile. Riavvolgendo e riproducendo il nastro di una candida quanto inquietante musicassetta bianca, contenente un’intervista del conduttore radio e docente Larry Reni Thomas alla Crawford, registrata poco prima della morte della donna nel 1996, il documentarista svedese spinge il tasto play su due storie parallele che si incontrano per caso, ricostruendo, attraverso il racconto in prima persona di uno dei protagonisti, esistenze segnate da esperienze precoci, fragilità ed eccessi.
Helen, nata e cresciuta negli spazi aperti di una fattoria del North Carolina, è una ragazza madre che sente una fascinazione irresistibile per la densità urbana e avverte sulla sua pelle la forza centripeta della città e il richiamo sirenico dei ritmi indiavolati del jazz.
Fuori dai campi dove conduce un’esistenza magra e serrata, la vita scorre fluida e ininterrotta come un’improvvisazione ispirata e i desideri sono possibilità infinite in attesa di essere esplorate. Dopo aver assaggiato un po’ di New York, metropoli americana per antonomasia, culla del jazz di Charlie Parker, di John Coltrane e Ornette Coleman - e la cui scena musicale non a caso affascinerà Scorsese e molti altri registi - Helen decide di stabilirvisi a tempo indeterminato. Disinvolta, tagliente e provocante, si fa subito notare nel vicinato, facendosi apprezzare particolarmente per la generosità nel mostrare il suo corpo e per la sua buona cucina. La sua casa diventa ben presto un locus amoenus per musicisti e reietti. In una sera del 1967 finisce per conoscere il celebre trombettista Lee Morgan, molto più giovane di lei e già in rovina a causa della dipendenza da eroina. Un incontro voluto dal destino che sarà allo stesso tempo la salvezza e la fine per il musicista.
I Called Him Morgan rievoca una vicenda che sembra venir fuori dalle pagine di un romanzo di James Ellroy ambientato a NY. La storia di un jazzista nato per essere una star, della sua attenzione alla moda e all’eleganza (ciò che, al di là della musica, ha contribuito a rendere il jazz così cool) e della sua autostima al limite della spavalderia, dei suoi problemi con la droga e dell’incontro tra eros e thanatos con una donna senza mezze misure. Lo fa orchestrando senza grande ispirazione una grande quantità di materiali eterogenei, dalle stupende fotografie in bianco e nero dell’archivio della Blue Note a frammenti di interviste ad amici e musicisti con cui Morgan ha trascorso gran parte del suo tempo, fino ad immancabili estratti di performance live, brani registrati e materiale visivo d’epoca.
Nonostante il ritratto che ne derivi sia senza dubbio ampio e completo, in questo mare magnum di ricordi, note e istantanee vintage in cui Helen fa da guida con la sua preziosa narrazione, è proprio l’essenza stessa di Lee Morgan a diventare sfuggente e a perdersi tra reminiscenze frammentarie e sedimenti, che non riescono a trasformarsi nel magma ribollente d’un racconto che rimanga avvincente e soddisfacente dall’inizio alla fine. Nessuno parla in maniera incisiva della sua musica, dell’impegno politico intrapreso dopo la disintossicazione, di ciò che distingueva Lee Morgan da qualsiasi altro jazzista afro-americano rendendolo quell’unicum che ciascuno di noi è. Così come nessuno, neanche Helen, si rende protagonista di un assolo narrativo strabiliante che, al pari di ciò che avviene in musica, possa riempire il pubblico di meraviglia, facendolo impazzire d’emozione o di nostalgia. I Called Him Morgan rimane una hit monca, un arrangiamento ben congegnato senza quel groove o quell’assolo che lo avrebbero reso, forse, indimenticabile.