Heli
Un film di notevole forza, un regista ispirato, un Messico pieno di zone d'ombra.

La testa in giù di un misterioso prigioniero, insanguinata e imbavagliata. L’inquadratura che si sposta, lentamente e impercettibilmente, sul corpo dell’uomo e di un altro individuo accanto a lui, che si trova nella medesima condizione. L’evolversi dell’inquadratura, un unico movimento che si trasferisce su altri due personaggi alla guida di un veicolo passando direttamente dal cofano all’interno dell’abitacolo senza interruzioni o stacchi, rivela come in realtà i due ostaggi non fossero appesi per i piedi, ma più semplicemente distesi. E’ questo l’inizio, memorabile e folgorante, di Heli di Amat Escalante, Palma d’Oro per la miglior regia a Cannes nel 2013. Un prologo che fin da subito ci rende partecipi di uno spiazzamento, condividendo con l’occhio di chi guarda una verticalità che un secondo dopo scopriamo essere un’orizzontalità di segno opposto. Il Messico raccontato da Heli, dal punto di vista della rappresentazione e della composizione pittorica dell’inquadratura, che alterna momenti di cruda durezza e attimi ben più fascinosi e ricercati, lavora proprio su ciò che è orizzontale. Sull’inquadratura piana, appiattita, sugli orizzonti saturi di particolari macabri e contraddizioni, riempiti da personaggi che nella migliore delle ipotesi portano sulle spalle il peso di un vissuto travagliato e nei casi peggiori devono invece fare i conti con drammi sociali e familiari ben più ampi.
La polizia federale, nei territori descritti da Escalante, è spietata ed esecutiva, incattivendo e minando alla radice qualsiasi interazione e qualsivoglia tentativo di tendere a un modo cristallino e onesto di rapportarsi, tanto agli altri quanto a se stessi. Un caos di valori e situazioni, pervertiti dalla corruzione e dalla mancanza di trasparenza che Heli raffigura col rigore feroce di una narrazione aperta e problematica, che allarga le maglie del racconto tradizionale per accogliere al suo interno dettagli e digressioni, slanci potenziali ed eventi solo apparentemente irrilevanti. L’affresco di Escalante non punta sull’armonia ma la rifiuta a priori, decidendo di partire da uno stato di cose che appare già insolubile e irreversibile: a Guanajuato, la dodicenne Estela vive con la sua famiglia, tra cui il fratello Heli, in condizioni di assoluta indigenza, dentro una quotidianità all’insegna della privazione che pare un teorema già dimostrato e senza via d’uscita. Come in ogni malsana ecosfera che si rispetti, bastano anche le nobili intenzioni (figuriamoci quelle terribili) a dar vita a un meccanismo fatalistico di colpe e di castighi. Ad aizzare una violenza a catena che vedrà la famiglia di Estela coinvolta in prima linea.
Nel Messico di Escalante l’umanità è ridotta ad offerta e richiesta, a una dilagante compravendita che somiglia alla reificazione e alla barbarie, tanto è insistita nell’invadere territori dello spazio e dello spirito che dovrebbero aprirsi, se non al romanticismo, almeno allo stupore. Il regista porta a termine una vera e propria ecografia di una nazione, perché è innegabile la forza con cui Escalante sonda la pancia del suo paese, quella più viscerale e impietosa, senza arretrare di un millimetro, con un realismo esasperato cui il regista si sforza ammirabilmente di donare una motivazione, un’origine, una parvenza di disegno, per quanto possa essere ferino e indistinto il suo organigramma. I colori del film non sono quasi mai pieni, virano verso tonalità grigio-nere, avvolgono i paesaggi messicani in una nube di sconforto e li rendono schiavi di un militarismo ottuso ed invasivo anche sotto il profilo estetico. La macchina da presa, presenza straniera in uno spazio nazionale che tuttavia è terra di confine, sembra riflettere essa stessa sul concetto di barriera e di frontiera, attraverso immagini sempre liminali, nelle quali ciò che rimane fuori è spesso decisivo quanto ciò che c’è dentro.
Ma se c’è una cosa che stupisce davvero, in Heli, non sono certo i peni che prendono fuoco (nella scena shock più chiacchierata del film), ma il modo in cui sono trattate le ragioni del cuore. Abbiamo infatti una storia d’amore giovane e disarticolata, che non vuole abitare più qui ma non sa che altrove ritagliarsi. E che allora si arrabatta, tra baci a mezza bocca e la condivisione di un’intimità strampalata. L’amore è sì resistenza ma resta ancorato a forme di espressione affettiva acerbe, quasi primordiali. Come in Battaglia nel cielo di Carlos Reygadas, altro regista messicano a dir poco significativo per il cinema contemporaneo ma dallo sguardo più metafisico dell’assai immanente Escalante, in Heli c’è una scena di sesso dall’importante valore simbolico: se nel caso del primo film l’inquadratura usciva dall’abbraccio coitale per planare, attraverso una finestra, sui palazzi e le case di Città del Messico senza mai staccare, testimoniando una distanza e un’alienazione senza pari e tornando sui corpi nudi solo alla fine del rapporto, in questo caso c’è una sequenza d’amore, nella scena finale, in cui i partner sono voracemente attaccati l’uno all’altra ma ad ascoltarli c’è solo una ragazzina. Anche qui la macchina da presa si allontana da loro sul più bello, ma nel loro letto non ritorna, con uno stacco definitivo che lascia il posto al vento che smuove le tende (immagine di bellezza incredibile) e all’ascoltatrice ancora troppo giovane. A riprova di un’intimità violata. Forse per sempre.