Hacksaw Ridge

Dalla storia eroica del (non)soldato Doss, Mel Gibson trae un grande film e trova il materiale perfetto per affrontare le contraddizioni che da sempre attraversano il suo cinema.

Per Mel Gibson sedersi dietro la macchina da presa significa anzitutto aprirsi alla carne e al sangue dell’immagine, gettarsi in una materia che si fa sporca e viscerale. Lo sguardo è sempre sopra le righe, saturo, la forma carica di retorica e composizioni simboliche. Qui si incontrano in conflitto aperto l’evangelico e il granguignolesco, l’ascensione e la mattanza.

Tutto questo può di certo respingere, lecito, ma di fatto significa a suo modo credere nella macchina del cinema, significa darsi in tutto e per tutto al flusso di immagini, per perdersi e farsi sommergere, invadere e redimere. Per Gibson, che anela il sacro ma cede allo sconvolgimento e alla violenza delle carni, un film come Hacksaw Ridge diventa quindi l’occasione per fare i conti con sé stesso e con il proprio sguardo, in cerca di un punto d’incontro che possa pacificare contraddizioni forse insanabili.

La storia ha di per sé dell’incredibile: Desmond Doss (un Andrew Garfield decisamente in parte), avventista del settimo giorno, fu un obiettore di coscienza che senza mai toccare un’arma da fuoco riuscì ad arruolarsi come medico e a salvare 75 soldati durante la battaglia di Okinawa. Un eroe fuori dal comune, che Gibson eleva a figura cristologica attraverso tutti gli elementi stilistici della più urlata e didascalica retorica bellica. L’adesione ai codici di epopea e mito del war-movie è totale, ma questa volta piegata ad alimentare un cortocircuito fenomenale e straniante: il tutto infatti si cuce addosso alla figura di un non-soldato, un pacifista, un giovane che vediamo toccare un fucile solo per farne palo da brandina.

Hacksaw Ridge non si risparmia nulla: ralenti, close-up sanguinolenti, violenza iperrealista, ma tutti gli elementi convergono in un cinema eccezionalmente vivo, emozionante, che strappa il cuore e lo sguardo con sequenze di guerra fulminanti, tra le migliori da anni a questa parte. Attraverso questo tour de force stilistico Gibson si chiede cosa sia a rendere realmente tale un soldato, e la risposta la trova non nella violenza ma nel coraggio, nella fede. Senza mai nascondere la necessità dell’omicidio nella realtà della guerra (e senza mai mettere in discussione l\'immagine di quest’ultima come male assoluto ma obbligato) Hacksaw Ridge eleva a cardine del proprio apparato retorico la fede che il soldato Doss riesce a portare sul campo di battaglia, e con la quale guida e rinforza i suoi compagni. Gibson, guerriero che ama i guerrieri ma odia la guerra (così si è descritto in conferenza stampa al Lido di Venezia, dove il film è stato presentato), è il primo a credere in Doss e nella sua fede, il primo a credere di poter trovare in lui e nella sua storia la chiave per scogliere la contraddizione che da sempre attanaglia il suo cinema. Tuttavia questa dicotomia è troppo radicata nel suo sguardo per poter essere risolta, all’urgenza salvifica della fede Hacksaw Ridge affianca il fascino morboso per la violenza e il sangue, ed è proprio questo scontro insoluto a farne un grandissimo film.

Per chi vive con lo sguardo volto a decenni addietro, questa sarà forse un’opera da gettare con sdegno nei rovi, sotto l’accusa di retorica bellica e fascismo mal nascosto; da parte nostra non possiamo che alzarci in piedi ed applaudire, sconvolti e rapiti da un film che ha il coraggio di mettere in scena la contraddizione più intima e sofferta del suo autore.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 06/09/2016

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