Green Room

Dopo l'anomalo e folgorante Blue Ruin, Jeremy Saulnier torna con un piccolo splatter claustrofobico senza perdere nulla del proprio tocco disturbante

Ci si ritrova ogni volta spiazzati di fronte a un cinema come quello di Jeremy Saulnier, smarriti e fuori luogo come le figure che lo popolano, siano esse quelle di homeless inetti in cerca di vendetta o quelle di uomini d’azione improvvisati, capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Non che le avvisaglie di un pericolo imminente manchino alle premesse di queste storie assurde e marginali, come nel caso fortuito che gli individui in questione si ritrovassero con la loro band punk a suonare, loro malgrado, a un raduno di neonazisti, finendo per vedere qualcosa che non avrebbero dovuto.

É pressapoco quello che accade nella semplicità immediata e lineare di Green Room, opera terza di un regista che delle incursioni nei generi ha saputo fare il proprio punto di forza destabilizzante, trovando in un’abile messa in scena e in una essenziale quanto sconcertante rappresentazione della violenza il filo conduttore del proprio percorso autoriale.

Sono film senz’altro anomali quelli di Saulnier, attraversati da una costante immutabile ed agghiacciante, affascinanti e sorprendenti persino quando si perdono nell’essenzialità del più classico dei film di assedio, in una lotta per la sopravvivenza idiota e brutale.

Perché, se è vero che la potenza tragica del precedente e magnifico Blue Ruin qui viene stemperata in favore di un’aderenza più serrata al genere – a scapito di intensità emotiva, drammaticità e spessore nella caratterizzazione dei personaggi – e la dimensione epica di quel revenge movie folle e assurdo finisce col cedere il passo alla più basilare lotta per la vita, è anche vero che a rimanere immutata è proprio la forza perturbante di quella violenza goffa e terribile, specchio di un mondo ottuso che ha smarrito qualsiasi umanità.

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Difficilmente altri autori di genere, oggi, sarebbero capaci della stessa disarmante sincerità, di quella visione destabilizzante, a tratti grottesca, in grado di restituire l’immagine impietosa di eroi tragicomici e fuori parte (ma anche i “cattivi” non sono da meno), comparse ingabbiate in ruoli che non le appartengono, vittime e carnefici di una violenza ottusa e iperrealista capace, con le sue esplosioni improvvise e devastanti, di affacciarsi su una banalità del male agghiacciante nella sua tremenda e stridente assurdità.

Impreziosito da un cast di ottimi interpreti (da Anton Yelchin alla perfetta Imogen Poots, passando per l’inedito villain di Patrick Stewart e per l’immancabile, defilato Macon Blair), da un filo di nerissimo umorismo e da un rigore formale capace di tenere alta la tensione anche nei momenti più stranianti, Green Room, lungi dall’essere un’opera minore se non, addirittura, un passo falso nel percorso del regista statunitense, altro non è che l’ennesimo tassello lungo un personalissimo viaggio cromatico nell’orrore quotidiano, la prova lampante che persino dentro un impeccabile e claustrofobico b-movie, persino dentro le regole più collaudate del genere, possa trovare rifugio la più cruda e violenta realtà.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 07/08/2016

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