Focus Festival / Introduzione: festival generalista o tematico?

Rispetto a pochi anni fa il panorama internazionale dei Festival appare decisamente mutato tanto nei rapporti di forza quanto nei numeri: nell’ultimo decennio abbiamo assistito infatti alla crescita esponenziale di manifestazioni cinematografiche di ogni genere, da quelle generaliste, che ricalcano modelli consolidati come Cannes e Venezia, fino alle rassegne più piccole e focalizzate. Di fronte a questo scenario caotico sono emersi dubbi, perplessità e domande di tanti commentatori e critici circa l’effettiva validità di tali eventi, alcuni decisamente gravosi per le casse statali. Ha ancora senso fare festival oggi? Se si, quale dovrebbe essere la loro funzione? E soprattutto: come dovrebbero essere strutturati? E’ necessario spendere così tanti soldi per dare visibilità ad opere che nella stragrande maggioranza dei casi si rivolgono a porzioni limitate di spettatori? Quanto riescono ad incidere nell’opinione pubblica e quanto davvero contribuiscono alla distribuzione e alla diffusione dei film? Se si dovesse guardare solo ad esempi come Cannes e Venezia le risposte a tutti questi interrogativi sarebbero probabilmente negative, e non è un caso se dubbi di questa natura siano sorti proprio per mettere in discussione i festival più potenti e consolidati. La verità è che manifestazioni di questo tipo, hanno visto negli anni in qualche modo sbiadire progressivamente la propria immagine, per almeno tre ordini di motivi.

1. Le selezioni dei film. In molti, troppi casi queste appaiono inadeguate a “raccontare” e registrare i mutamenti che il cinema vive anno dopo anno, ma soprattutto condizionate da una visione del cinema miope ed elitaria, ripiegata su se stessa, sulla propria immagine. Come nota giustamente Pietro Masciullo, nel suo articolo dedicato al festival di Cannes, i programmi di tale kermesse (ma lo stesso discorso vale per Venezia) sono da ormai troppo tempo prevedibili ed autoreferenziali, pieni di nomi noti che puntualmente trovano un posto assicurato in concorso. La ragione principale di tale stortura risiede nell’esigenza di dover confermare ad ogni occasione il proprio prestigio, dimostrando non solo che i più importanti autori del cinema mondiale vanno lì, ma che tornano nel luogo che li ha visti nascere e crescere, come gesto di riconoscenza nei confronti dell’istituzione che li ha lanciati. I nomi dei cineasti che ad ogni edizione affollano le selezioni cannensi servono sia a garantire la popolarità del festival sia a ricordarne la storia, in un movimento di costante riattualizzazione del passato. Quando invece si punta sugli esordienti e sulle scoperte molto spesso si producono autori in serie, incanalandoli dentro canoni stabiliti e appiattendo le potenziali differenze estetiche. Non a caso da diverso tempo si parla di stile “da festival” per intendere quella particolare tipologia filmica “influenzata” dal cinema modernista europeo, di cui viene riproposta sterilmente la superficie. In questo senso la nascita di fondi[1] destinati alla produzione rischia di alimentare ulteriormente questo circolo autoreferenziale perché, in alcuni casi, incoraggia gli autori a proseguire con il proprio cinema senza dover mai fare i conti con gli spettatori o con qualsiasi altra realtà che non sia quella festivaliera.

2. I premi. Le assegnazioni dei riconoscimenti seguono inevitabilmente principi aleatori legati ai gusti particolari dei giurati. A seconda delle personalità che vengono chiamate a “giudicare”, cambia l’orientamento. Non solo la scelta del vincitore è il prodotto di un compromesso ma quella stessa scelta potrebbe cambiare radicalmente con altri giurati. Oltre tutto – ed è questa la colpa più “grave” – raramente garantiscono un’ampia visibilità: i numeri impietosi circa gli incassi stanno lì a dimostrarlo.

3. I luoghi. Se si escludono i festival metropolitani, come ad esempio Berlino o, per rimanere in Italia, Torino, spesso i festival sono lontani dalle città e inseriti in contesti freddi e inospitali che impediscono di poter accogliere spettatori occasionali o semplici curiosi. Coloro che partecipano a tali eventi sono, non a caso, quasi esclusivamente critici, cinefili ed operatori del settore.

Eppure, nonostante queste ragioni, crediamo che i festival continuino ad avere una loro importanza. Per comprendere tale posizione bisogna guardare ai tanti esempi positivi in giro per il mondo, e in particolare a tutte quelle manifestazioni cinematografiche che definiscono la propria identità a partire da una determinata regione geografica o da una specifica area tematica. Festival come il Far East Film Festival di Udine, ad esempio, sono privi di alcune delle storture elencate poco sopra perché non ambiscono a voler raccontare il reale nella sua interezza, né ad imporsi sugli altri, ma piuttosto ad avvicinare gli spettatori a culture differenti. In questo modo favoriscono una delle caratteristiche principali dei festival, che è quella della condivisione e dell’apertura verso l’altro. Se i festival continuano ad avere un senso oggi è perché spingono le persone fuori di casa, perché stimolano la curiosità, accendono la passione, “formano” gli spettatori, proponendo sguardi differenti, punti di vista nuovi; perché permettono di vedere film completamente diversi da quelli che accedono nelle sale, o d’incontrare gli autori che si amano, e perché, nei casi migliori, sono capaci di regalare emozioni uniche. Ogni proiezione è un appuntamento nuovo, un viaggio nuovo dentro altre storie, altri mondi, altri corpi. Se è vero che tutti i festival favoriscono esperienze di questo tipo, la differenza tra i festival generalisti e quelli tematici sta nell’assenza, da parte dei secondi, del principio dell’esclusiva, dell’ossessione per l’anteprima mondiale, della competizione, dell’affermazione di sé, che molto spesso producono le estremizzazioni di cui abbiamo parlato. Il successo di manifestazioni come Il Cinema Ritrovato di Bologna o Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone ci dicono non solo che i festival hanno ancora una loro centralità nelle politiche culturali di un paese ma anche che c’è un pubblico, molto più variegato e assortito di quanto si creda, interessato a tali eventi e capace di accogliere proposte fuori da logiche standardizzate.

Ad essere in declino oggi non è tanto l’idea di festival come manifestazione culturale quanto la natura di quelli generalisti, sempre più incapaci di parlare agli spettatori ma soprattutto di definire una direzione verso la quale muoversi. In questo senso non si può non guardare con piacere e fiducia ai cambiamenti strategici del festival di Berlino, che negli ultimi anni ha in parte accantonato il diktat dell’anteprima per sostenere il recupero di opere indipendenti, precedentemente mostrate altrove. La collaborazione con i festival dell’area mediorientale, come Dubai e Abu Dhabi, ha permesso, ad esempio, l’emersione di tanti nuovi cineasti arabi che altrimenti sarebbero rimasti confinati nell’anonimato. La straordinaria risposta di pubblico così come la partecipazione di tutta la città, mostra un modello di festival generalista (che Roma ha cercato, senza successo, di emulare) lontano dalle torri d’avorio del cinema elitario e vicino al luogo che lo ospita. Perché Berlino, prima ancora di essere una kermesse internazionale, è una manifestazione fatta insieme con la città e per la città. Della serie: un altro festival generalista è possibile.

[1] Per citarne un paio: Hubert Bals Fund del Festival di Rotterdam e il World Cinema Fund di Berlino.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 07/08/2014

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