Dossier Lisandro Alonso / 1 - Da qualche parte oltre i confini del cinema

Viaggio nel cinema di frontiera di Lisandro Alonso

Davanti al cinema di Lisandro Alonso si prova un senso di smarrimento non molto dissimile da quello di Vargas mentre si aggira nella sala cinematografica che fa da sfondo in Fantasma. Un sentimento di straniante familiarità in cui nella cornice ultra-realistica si insinua il perturbante, come conseguenza di una pratica filmica cruda fino all’oscenità del reale, che dissolve progressivamente la forma e i personaggi, sottratti all’occhio della macchina, incapace di contenerne le traiettorie. Il cinema di Alonso si definisce a partire da una situazione di partenza concreta, giocata spesso sul confine sottilissimo tra doc e fiction (e dunque ancorata ad una prospettiva mimetica che mira a restituire un reale immacolato), che presto però si incrina, ridefinendosi fino a cancellare le tracce e a smarrirsi nella durata, nel fluire lento ed inesorabile di un corso d’acqua, di una camminata, di un viaggio.

In questo senso può essere ascritto ai canoni del cosiddetto cinema contemplativo, pur restando ai margini della galassia cinema, anche di quella più autoriale. In Alonso vi è certamente una componente visuale importante, eppure diversa rispetto a quella di altri campioni del cinema visivo di questi anni (da Lav Diaz a Tsai Ming-Liang), perché in lui manca totalmente il principio narcisistico del gesto-cinema come segno di un talento, di una qualità estetica singolare da rivendicare, più o meno consapevolmente, attraverso la messa in messa. Se si esclude l’ultimo straordinario Jauja in cui si pone un accento maggiore alla cura della superficie (e in questo senso non è secondario l’apporto dello storico collaboratore di Aki Kaurismaki, Timo Salminen), le inquadrature di Alonso non hanno niente di bello o di particolarmente seducente. Al contrario, le immagini del suo cinema appaiono come il frutto di un lavoro sommesso in cui si privilegia il corpo e la sua relazione con l’ambiente (quasi sempre en plein air ), resoconto di una data situazione che significa e si giustifica da sé, nel momento stesso in cui accade e viene filmata (emblematico il titolo d’esordio, La libertad, storia di una giornata qualsiasi di un taglialegna).

L’effetto straniante che abbiamo citato all’inizio deriva in parte da questo disinteresse formale che produce schegge di cinema “impuro”, brandelli di testo, narrazioni "disinteressate", che non hanno mai neanche per un momento l’ambizione di farsi cinema. Non a caso Vargas, protagonista di Los Muertos, si ritrova nel successivo Fantasma dall’altra parte della “barricata”, spettatore, forse suo malgrado, del film che ha interpretato. Ecco allora che il cinema di Alonso, con uno squisito gesto meta-narrativo dichiara l’a-filmicità dei suoi film e dei suoi attori (tutti rigorosamente non professionisti, ad esclusione di Jauja), sempre un passo oltre (o prima del) il cinema, oltre la cornice che dovrebbe restituirne un senso, donandogli una forma (pensiamo al primo cortometraggio, Dos en la vereda: un unico pianosequenza con una lenta panoramica da sinistra a destra che cattura per pochi minuti due amici intenti a bere e chiacchierare, per poi abbandonarli fuori campo. Movimento che poi ritroveremo praticamente identico nello svelamento dei cadaveri in Los Muertos). Come a dire che se da un lato si può fare cinema con qualsiasi cosa, persino con il tempo morto di una proiezione (già vista), dall’altro viene meno il principio del racconto, dell’evento filmico.

Il confronto con Tsai Ming-Liang (chiamato in causa da molti ai tempi di Fantasma) risulta fuorviante: nei film del malese il cinema si offre come unico luogo di appartenenza e di salvezza da un mondo di rovine. In quello di Alonso invece non c’è nostalgia perché non c’è confronto (neanche indiretto) con il passato: tutto avviene sempre al presente, anche quando il tempo sembra ripiegarsi su se stesso, probabilmente frutto di una fantasia o di un sogno (vedi Jauja), come un insieme di presenti che passano e mancano l’appuntamento con il destino. Oltretutto i paesaggi di Alonso sono esattamente quel che mostrano, non rinviano quasi mai ad un’altra immagine o storia. Anche le azioni non hanno niente di epico o drammatico: sono semplici momenti di vita, più o meno avventurosi, strappati al mondo e contenuti, a fatica, dentro i bordi dell’immagine (che non a caso si arrotonderanno in Jauja, come a voler addolcire la presa del cinema sul pro-filmico). Il fuori campo in questo senso ha un’importanza capitale. Di più: in Alonso è proprio ciò che sta fuori dall’immagine ad assurgere ad elemento primario, non tanto e non solo in quanto discorso sul mostrare ciò che gli altri non filmano (il lavoro, il gesto quotidiano, ecc..) quanto piuttosto nella consapevolezza di un essere nell’assenza, di un vuoto incolmabile di cui il cinema si deve fare carico, e dunque traccia e non risposta. Di qui la rinuncia a qualsivoglia sovrastruttura letteraria (la sceneggiatura, la caratterizzazione del personaggio, ecc..) così come alla definizione di un tracciato.

Si badi bene: c’è sempre un itinerario geografico (la pampa, la terra del fuoco, il deserto roccioso), in alcuni casi persino estenuante nell’aderenza ai ritmi e ai tempi del reale, ma manca la finalità, se non nelle forme sfumate e precarie del “ritorno a casa”. Il cinema di Alonso si produce dunque suo malgrado, come se in realtà non gli interessasse davvero realizzare un racconto per immagini, ma piuttosto partecipare insieme con i suoi personaggi, o forse sarebbe meglio dire corpi, in virtù del suo approccio anti-psicologico, al vagabondare della vita dentro la durata del tempo. Detto così sembrerebbe un cinema filosofico, che ambisce a filmare l’infilmabile, ad interrogarsi sui massimi sistemi, sui principi basilari dell’essere. Eppure a nostro avviso ci pare piuttosto l’esatto contrario, ovvero un cinema scarnificato, primitivo che filma ogni cosa con lo stupore (e forse l’ingenuità) della prima volta. Ecco allora il sogno virginale di Jauja, che riprende la struttura di Liverpool spingendosi fino agli albori dell’immagine, addirittura fino al dagherrotipo, ovvero al cinema delle origini, aspirando alla stessa impersonale purezza lumieriana. Che è poi la stessa rincorsa in modo quasi automatico in tutta la carriera dell’autore. Una ricerca vissuta al fianco dei propri corpi nelle lande desolate della terra-cinema, perlustrata fino agli angoli più remoti, fino all’ultima frontiera del visibile. Un lavoro di perlustrazione accidentato, incerto e sempre provvisorio, proprio come quello dei cowboy nel western americano, perché privo delle coordinate minime (cinematografiche e geografiche) capaci di restituire una mappatura del territorio.

Nei film di Alonso siamo portati a confrontarci costantemente con i limiti del cinema e della conoscenza: ogni storia, volto, situazione è ammantata di un’aurea misteriosa, enigmatica, destinata a restare tale fino all’ultima inquadratura, o a rilanciarsi, quando sopraggiunge un nuovo dettaglio che rinvia oltre il film la storia di quel viaggio. Pensiamo, ad esempio, alla funzione svolta dagli oggetti feticcio che sovente incontriamo per la strada: statuine abbandonate all’ultima tappa o dimenticate lungo il percorso, segni indecifrabili di un passato oscuro che non conosceremo mai, probabilmente legati al ricordo infantile e allo spazio familiare, al quale si cerca spesso di tornare. Come in Los Muertos e Liverpool, veri e propri film gemelli in cui si racconta esattamente questo: il viaggio di ritorno di un uomo che ha vissuto per lungo tempo separato dal resto del mondo (in carcere o su un cargo). Non importa l’arrivo (lasciato sempre fuori campo) ma piuttosto il percorso, la sopravvivenza dei corpi, spesso costretti a regredire fino ad uno stadio animale, preistorico, in un’esperienza resistenziale tutta giocata sulla tenuta di quei corpi. E’ proprio su questo punto che si ribalta il canone del film on the road: perché non c’è niente da imparare dal viaggio, nemmeno il percorso da compiere eventualmente a ritroso. Si avanza a tentoni, procedendo per tentativi, e una volta arrivati non resta che lasciare al mistero del fuori campo il compimento della storia. Da qualche parte oltre i confini del cinema.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 16/02/2015

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