The Deserted

Il regista taiwanese prosegue ostinatamente nella ricerca di nuove (e più radicali) ipotesi estetiche che possano riconfigurare il suo cinema, riposizionarlo altrove.

Let’s continue making films, scrive Tsai Ming-liang alla fine del press-book che accompagna la visione di The Deserted, ennesima conferma di un regista che non ne vuole proprio sapere di smettere, nonostante il superamento della forma-film, così come lasciato intendere ai tempi di Stray Dogs. Al contrario, il regista taiwanese prosegue ostinatamente nella ricerca di nuove (e più radicali) ipotesi estetiche che possano riconfigurare il suo cinema, riposizionarlo altrove. Persino oltre le soglie di quello che viene comunemente considerato cinema. Ricerca, questa, intimamente legata al lavoro sullo spazio. Pensiamo ad Afternoon, penultima opera realizzata da Tsai, che rivendicava la permanenza in uno spazio abbandonato, nell’intervallo tra un film e l’altro. Una vera e propria operazione di "conquista territoriale" che faceva dei luoghi tipici dell’autore lo spazio abitativo da condividere con il compagno di sempre, Lee Kang Sheng. Almeno fino a questo The Deserted che prende in prestito gli ambienti di Afternoon, utilizzandoli come set per una nuova opera finzionale, in un movimento opposto rispetto a quello descritto dal film precedente. Come se ogni spazio di Tsai Ming-liang fosse oggetto di un processo reversibile, dal cinema alla vita e viceversa. Segno di un’opera indissolubilmente legata all’esperienza del suo autore, al suo vissuto e per questo capace di rigenerarsi ogni volta, ripartendo dal punto esatto in cui l’avevamo lasciata.

Il movimento a ritroso non riguarda solo lo spazio ma si estende a tutto l’universo filmico di Tsai Ming-liang, che qui viene nuovamente chiamato in causa. A distanza di quattro anni da Stray Dogs, tornano dunque Hsiao Kang, l’Antoine Doinel del cinema di Tsai, la madre, interpretata come sempre da Lu Yi Ching, l’amore della vita di Hsiao Kang, Chen Shiang-Chyi, le piogge torrenziali, il materasso di I Don’t Want to Sleep Alone, il pesce di Che ora è Laggiù?, i fantasmi, e ancora l’incomunicabilità e la solitudine come unico orizzonte quotidiano. E soprattutto ritorna quel misterioso dolore al collo che tormentava Hsiao Kang ai tempi de Il fiume, segnalando un malessere che sarebbe poi sfociato nella sconvolgente sequenza incestuosa nella sauna. Grazie ad Afternoon sappiamo che quel dolore (o almeno il suo ricordo) era reale, preso in prestito dalla vita dell’attore, così come lo è quello di oggi. Lo spunto richiama ancora una volta la biografia, come a voler fissare nell’immagine un frammento di vita, fornirgli una cornice, un orizzonte di senso. 

Hsiao Kang, ormai definitivamente solo dopo il naufragio di Stray Dogs, non può fare altro che continuare ad abitare l’inquadratura, a rivendicare la propria presenza, come un naufrago solitario in balia della tempesta (All is Lost?). Una presenza, quella del corpo di Hsiao Kang, che qui si fa più incerta, in virtù dell’utilizzo della virtual reality che permette allo spettatore una visione a 360°, allargando i limiti dell’inquadratura. Questa estensione spaziale produce un senso di spaesamento dettato dal venir meno di un centro nell’immagine. Gli spettatori sono invitati a muoversi all’interno dello spazio, ad esplorarlo fino al dettaglio più insignificante, fino all’angolo più remoto, quasi dimenticandosi di Hsiao Kang, o meglio, arrivando a partecipare alle sue sorti senza necessariamente dedicare a lui tutta l’attenzione. E’ la condivisione di uno spazio di rovine ad avvicinare lo spettatore e a permettergli di vivere una vera e propria esperienza sensoriale in cui il tempo sembra ripiegarsi su se stesso in un eterno presente di attese e piccole fughe immaginative. Rispetto alla saga del monaco errante non ci sono più intervalli da sezionare, movimenti da cogliere fino al più impercettibile scarto motorio. Non resta che l’immersione in uno spazio più che mai "precario" e labirintico, sintesi della dialettica tra spazio abitativo e spazio qualsiasi che contraddistingue tutto il cinema di Tsai. Troppo spoglio per essere davvero una casa ma allo stesso tempo più "confortevole" rispetto ai giacigli occasionali di Stray Dogs e I Don’t Want to Sleep Alone. I segni della civiltà si riducono ad un gruppo di mobili ed oggetti essenziali: un fornello, un tavolo, una sedia, un divano, una vasca, mentre tutto attorno ci sono cumuli di macerie, detriti, polvere, acquitrini. Da Stray Dogs in poi non esiste più una casa dalla quale fuggire o a cui fare ritorno. Oggi l’unica casa possibile è l’angolo umido di un palazzo sventrato e abbandonato.

Nel momento di massima crisi per il personaggio, coincidente con un processo di rinnovamento formale, Tsai Ming-liang decide dunque di traslare il proprio cinema nell’idea di film-ambiente in cui ciò che conta non è altro che la testimonianza di una presenza, dell’esistenza di uno spazio aperto, di frontiera, in un angolo remoto del mondo. Il cinema di Tsai Ming-liang, definitivamente svincolato da qualsivoglia traccia narrativa, rivendica la propria ragion d’essere nell’esperienza immersiva in luoghi altri, nella conquista di spazi, insieme cinematografici ed esistenziali, ultimi avamposti di un mondo sempre più alla deriva.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 02/09/2017

Articoli correlati

Ultimi della categoria