Dossier Denis Villeneuve / 3 - Maelström

Il secondo lungometraggio di Villeneuve, sperdimento tra Edgar Allan Poe e il desiderio

Maelström is probably the first romantic drama ever narrated by a smelly dead fish. What might a dead fish have to do with love?” Così Stephen Holden, sul «The New York Times», inizia la recensione del secondo lungometraggio di Denis Villeneuve, realizzato due anni dopo Un 32 août sur terre (1998) e quasi un decennio prima di quel film, Polytechnique (2009), che spingerà il suo cinema su nuovi territori espressivi, su altre mappature dell’Umano.

Un cinema che da sempre fa di forma e narrazione un corpo unico, sebbene composto di stratificazioni, di livelli possibili, e al contempo di “ripiegamenti” su stesso che non si traducono però in narcisismo d’autore: anche quell’autorialità e quella porosità visiva e narrativa europea riscontrabili soprattutto nei suoi primi due film, insomma, non sono mai esercizio, dimostrazione, mera gratuità. Ecco, a voler schematizzare brutalmente, è proprio questo: il suo è, ogni volta, un cinema che cerca un dialogo con lo spettatore, non gli importa se “specializzato” o senza patente d’ermeneuta qualificato. Non ha la presunzione di stabilire gerarchie, è uno sguardo registico che cerca sempre di essere a sua volta guardato, visto, riconquistato (dunque anche nelle disarticolazioni stilistiche e di racconto del suo film d’esordio), rischiando anche di essere frainteso (la fondamentale artificiosità, in realtà solo apparente, solo drammaturgica, de La donna che canta, del 2010), all’interno della mediazione cangiante di generi, forme e messe in scena.

E allora, tornando a quel pesce martoriato, voce narrante di Maelström, creatura battuta dalla grossa lama del suo ributtante boia, si fa presto a dire “romantic drama”, perché le cose stanno (in parte) così: Bibiane Champagne (Marie-Josée Croze) ha 25 anni, è bella, molto, i suoi occhi blu sono il primo indizio sulla sua vita, sul suo personaggio: è in una clinica, ha deciso di abortire, lo fa, poi perde il lavoro e una carriera di successo. Dopo una serata ad alto tasso alcolico si mette in macchina ma investe un tizio (Kliment Denchev), corre via spaventata; l’uomo intanto riesce a rialzarsi e a tornare a casa, per morire poi poco dopo. Il senso di colpa di Bibi cresce di giorno in giorno, ma le cose si complicano ulteriormente quando incontra Evian (Jean-Nicolas Verreault), il figlio dell’uomo che ha travolto, e si innamora di lui. Ricambiata.

Ma è e potrebbe essere sempre anche qualcos’altro, Maelström, come un film in perenne divenire, una storia in creazione continua, destinata all’incompletezza nonostante gli sviluppi concreti di una storia che scorre sulla retta inizio-centro-fine. Una posa, appunto, un meccanismo fittizio per arrivare alla profondità del reale, alla sua inconoscibilità, alla vertigine, a un luogo nuovo, che è origine e punto d’arrivo, all’acqua, di nuovo. Perché Villeneuve stilizza il mondo e ne setaccia l’anima, quasi per assurdo, nella traiettoria di Bibi e e di Evian, ed è a lei, la sua protagonista, che dapprima nega il rispecchiamento nel reale, dandole misura in un’asimmetria, nell’assenza di una compenetrazione fra quello che lei è e il mondo. È in questo scarto che lei può esistere. È quasi un’extraterrestre, Bibi, come arrivata da un pianeta Nouvelle Vague e costretta a uscire dal Cinema, dalla protezione di un apparato finzionale: è la morte dell’uomo a causa sua che la rende reale, come se il regista, improvvisamente, non avesse più controllo su di lei, come se non fosse più un personaggio, come se fosse soltanto sua la scelta di correre all’aeroporto da Evian per confessargli, col fiatone quasi a strozzarla: “Mi sono dimenticata di dirti che volevo fare l’amore con te”.

Scivola tra Edgar Allan Poe e una strana grammatica del desiderio, Maelström, tra commedia nera e film-sogno, tra la terra e l’acqua, tra ironia a passo lieve e un intimismo trasfigurato, reinventato, liberato; è un fantastico che si materializza in una realtà di sperdimento e dolce convulsione, un reale che riesce a sostanziarsi di vita e a trattenere le leggerezza di un disegno, di un tratto, con l’amore e la morte che si scambiano il posto, mutano relazione e direzionalità. Il movimento del cinema nel suo compiersi e ricominciare.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 22/09/2015

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