Dossier Denis Villeneuve / 5 - La donna che canta

Opera geometrica, ricca di corrispondenze narrative, che destruttura la propria stessa testualità binaria e la evolve in una struttura che evade la classica dicotomia amore-odio

Nel 2010 Denis Villeneuve realizza il film che lo consegna all’attenzione del pubblico internazionale: La donna che canta tratto dall’opera teatrale Incendies di Wajdi Mouawad, riceve una nomination per il Premio Oscar per il miglior film straniero del 2011, e per il regista canadese si aprono le porte di Hollywood. L’opera che permette tutto ciò è una storia drammatica sulla vita di una donna, Nawal Marwan, che vive in prima persona le atrocità della guerra civile libanese. Alla sua morte, avvenuta in seguito a un’improvviso stato catatonico apparentemente immotivato, i due figli gemelli Jeanne e Simon vengono a sapere dal testamento della madre che essa li ha assegnato il duplice compito di ritrovare il padre, che credevano morto in guerra, e un fratello di cui non sapevano nulla. La ricerca della verità assume per i due ragazzi il senso di un tragitto non lineare che parte da una dicotomia (due fratelli, due persone da ritrovare) che si risolve in una tragica fusione narrativa.

Villeneuve imposta infatti le basi del film su una costruzione complessa costituita dalla storia della madre, dei gemelli e del terzo figlio mai conosciuto, e poi la modifica adattandola a una struttura circolare. L’inizio del film, con il movimento di macchina che parte dal paesaggio esterno per penetrare entro la finestra di una stanza, sotto la musica di You and Whose Army? dei Radiohead, rivelando soldati e bambini, piedini nudi e scarponi imponenti, prelude a un intreccio stratificato in cui le corrispondenze non sono così nette e contrarie come potrebbe sembrare.

La giovane Nawal si innamora di un rifugiato palestinese che le viene ucciso dai fratelli cristiani, e dato che è incinta, è costretta ad abbandonare alla nascita il figlio Nihad e a fuggire. Venuta in città a studiare per emanciparsi, allo scoppio della guerra civile si mette alla ricerca del suo bambino negli orfanotrofi limitrofi, assistendo ai massacri fra i cristiani e i rifugiati, fino alla decisione di partecipare attivamente agli scontri. Il suo omicidio di un esponente politico cristiano le costa quindici anni di prigione, in cui viene ripetutamente seviziata dal torturatore Abou Tareq, che come sanguinoso regalo la metterà incinta di Simon e Jeanne. Finora è chiara la scissione narrativa: da una parte l’immenso amore per il ragazzo amato in gioventù e per il figlio perduto, dall’altra l’odio per i combattenti cristiani e in particolare per il suo crudele aguzzino, il cui ricordo avvelena il suo rapporto con i gemelli nati dallo stupro tenendola sempre affettivamente distante da loro.

Da qui parte però l’evoluzione strutturale di La donna che canta. La storia fino ad adesso descritta come una diramazione lineare di personaggi buoni e cattivi, collassa su se stessa. “Può uno più uno fare uno?”, chiede Simon alla sorella che insegna matematica pura all’università: ciò che appariva duale ora è divenuta una cosa sola. Il padre è il figlio, il figlio amato è anche il carnefice odiato, amore e odio convergono in un unico legame insopportabile. Nel venir meno di questa accezione binaria che vedeva Nawal vittima del nemico, costretta ad odiare chi le aveva portato via le persone amate, l’odio diviene fatto genetico, che si subisce ma si insegna anche ai proprio figli. La madre e il figlio che si erano cercati tutta la vita si scontrano senza saperlo dentro una prigione, e si uniscono nell’odio che è cresciuto loro fin da quando sono stati separati. In una dimensione edipica, dal figlio dell’amore vengono generati i figli dell’orrore, ed è a loro che Nawal affida la possibilità di rompere la catena dell’odio la cui estenuante circolarità le appare ora l’elemento fondante della sua esistenza.

A sorpresa un’opera così profondamente strutturata trova la sua soluzione narrativa nello scioglimento delle dicotomie e dei rapporti di causa ed effetto: Villeneuve gira un film matematico sull’equazione umana che genera l’odio nelle persone, e poi la risolve rifiutando la corrispondenza coerente che vede la violenza come reazione ad una violenza pregressa. I colpi di scena e la rivelazione finale in La donna che canta servono da elementi di rottura del perimetro convenzionale che vede la dimensione bellica entro la relazione carnefice-vittima, rivelando invece l’evoluzione morale che spinge le vittime a farsi carnefici di altre vittime. I fratelli di Nawal le uccidono l’amante, Nawal uccide a sua volta, suo figlio è un assassino formidabile, il male passa nel sangue e contagia ogni relazione amorosa.

Villeneuve dà qui vita a un cinema costruito, che analizza algebricamente la propria storia e interpreta la violenza come fattore genetico trasmesso da un individuo all’altro. La donna che canta è un film conscio della propria testualità, che si sviluppa nel solco di una destrutturazione narrativa, rompendo, scomponendo, le vite dei personaggi per poi riunirle in una nuova coesione familiare. Dopo essersi progressivamente allontanati, senza anzi essersi mai realmente conosciuti, Jeanne, Simon, Nawal, Nihad/Abou Tareq ora possono vedersi come un’unica famiglia dal passato tragico, talvolta attraversata da scorci di una tenerezza infinita che solo adesso, dopo tanto odio, può venire espressa : perché “niente è più bello dell’essere insieme”.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 29/09/2015

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