Dossier Denis Villeneuve / 1 - Il cinema della metamorfosi
Introduzione all'opera dell'autore canadese, crogiolo di sperimentazione stilistica e narrativa che dimostra la vitalità tutt'altro che in crisi della Settima Arte.

Con sette film all’attivo (e un sequel di Blade Runner in arrivo) Denis Villeneuve è uno degli autori più interessanti della sua generazione.
Da questo assunto parte un percorso di ricerca che dalle storie raccontate dall’autore porta fin dentro le pieghe delle sue immagini; tutte cose diverse, nessuna simile alla precedente o alla successiva. Ad oggi Villeneuve si presenta come un regista più unico che raro, costantemente teso alla sperimentazione, alla ricerca dei limiti in cui l’immagine in movimento esperisce momenti di smottamento o deflagrazione, spinto da storie sempre nuove. Un cinema che abolisce categoricamente la rendita artistica per abbracciare totalmente un atteggiamento di perenne scommessa e rilancio verso il futuro e il nuovo.
Un cinema, il suo, che appare non avere debiti con alcuna tradizione precisa – pur conservando e esibendo una consapevolezza del cinema e dei suoi linguaggi fuori dal comune – forse proprio perché proveniente da quella terra, il Canada, che ha nel DNA la permanente ricerca di un virtuoso meticciato culturale, sociale e artistico. Le personalità creative canadesi hanno sempre giocato di sponda, mettendosi ai margini delle questioni e delle discipline; qui tutto si trasforma e una materia si evolve in un’altra, a partire dalla dimensione culturale e geografica, con un occhio all’Europa e uno agli Stati Uniti. I grandi maestri canadesi della Settima Arte stanno lì a ricordarcelo, da George Romero a David Cronenberg a James Cameron. Attualmente l’eterogeneità artistica e la voglia di scommettere su nuovi linguaggi appaiono tutt’altro che sopite nei giovani autori, come ribadiscono il cinema irrorato di talento di Xavier Dolan, la parabola artistica di Sarah Polley o, appunto, l’opera di Denis Villeneuve.
Cercando di evitare il più possibile uno spiacevole didascalismo, ci sembra però importante passare in rassegna la sua filmografia – escluso Sicario, a breve nelle sale italiane – in modo da riconoscere alcune tendenze che, a fronte di sei film, tutti di indubbio interesse, ci sembra emergano dall’opera del giovane autore canadese.
Il lungometraggio d’esordio di Villeneuve è di quelli che non passano inosservati, non tanto per il successo del film (quasi nullo), quanto per la potenza anarchica e incredibilmente vitale delle sue immagini. Un 32 août sur terre, infatti, pare portarci indietro di quarant’anni e localizzarci in un clima “europeo”, lì dove il cinema d’autore del Vecchio continente sperimentava linguaggi nuovi alla ricerca dell’emancipazione dagli standard Hollywoodiani. Siamo dalle parti della Nouvelle Vague francese o del Free Cinema inglese, solo per citarne due.
Nel suo esordio il regista vuole urlare a tutti i costi quanto bene abbia imparato la lezione di Godard e, soprattutto, quanto quegli insegnamenti siano ancora di vitale importanza per il cinema di oggi. Si ha immediatamente di fronte un film discontinuo, sghembo, asimmetrico, in continuo cambiamento, alle cui spalle si cela una mente che corre alla velocità della luce.
Il successivo Maelstrom si presenta un po’ come una prosecuzione di quelle idee forti ma declinate sul piano della normalizzazione, dove a un canovaccio narrativo più tradizionale si affianca il riferimento culturale incontrovertibile di Edgar Allan Poe. Tuttavia anche in questo caso è nel linguaggio che emerge la ricerca dell’autore, nella dicotomia tra l’ordinario e il mostruoso, dove quest’ultimo diventa materialmente il soggetto narrante della storia.
La prima grande svolta nella filmografia di Villeneuve arriva con Polytechnique, lacerante racconto di morte e autodistruzione, potenziato dalla stretta derivazione dal reale e reso ancora più riconoscibile dall’infelice rimpiattino tra realtà e finzione che si lega a questo tipo di eventi: alle sparatorie nei luoghi pubblici statunitensi si affiancano opere come Bowling a Colombine, Elephant e, naturalmente, Polytechnique. Con questo lavoro il cinema del regista compie un decisivo salto di maturità; Villeneuve va a completare il suo sguardo aggiungendo all’ormai personale riflessione sul cinema un’attenzione ai problemi di natura sociale che dalle difficoltà esistenziali del singolo vanno a fondo negli equilibri della comunità, metaforizzata in questo caso dal microcosmo del politecnico.
Incendies, terzo film, rappresenta per molti aspetti il suo ineguagliabile picco qualitativo, quel momento in cui l’opera di Villeneuve entra nel parco chiuso del grande cinema d’autore contemporaneo. Il cambiamento più radicale è di natura geografica: il regista realizza un film ambientato in Medio Oriente, che da una parte si collega all’umanesimo realista di Kiarostami, ma dall’altra affronta la materia con una sceneggiatura tutt’altro che sottomessa, ma anzi strutturata in maniera proteiforme, fino a fare del plot un suo mero strumento.
Gli ultimi due film arrivano come una radicale discontinuità rispetto a tutto ciò che Villeneuve ha realizzato in precedenza, sebbene, come abbiamo potuto notare, il cambiamento è una cifra tra le più significative del lavoro del regista. Tuttavia Prisoners e Enemy, legati dalla comune presenza di Jake Gyllenhal come interprete principale, si distinguono dal resto soprattutto perché si configurano come le prime due produzioni americane del regista, e in quanto tali vettori di una rinnovata scommessa estetica. Prisoners è un film che si cala totalmente nei meccanismi del genere, andando a selezionare i codici specifici del noir contemporaneo. In questo modo si collega ad opere estremamente affini come Mystic River e Zodiac, con le quali condivide l’elezione della sceneggiatura come traghettatore principale del senso, binario privilegiato che porta lo spettatore al riconoscimento di quel fondativo nero interiore dei protagonisti. Enemy si presenta come il completamento di Prisoners, una sorta di fratello minore ma forse ancora più talentuoso, che parte dalla grande letteratura europea (Saramago) per ragionare sui mali dell’uomo moderno e sul suo amletico rapporto con la morte.
Pur in perenne metamorfosi e di conseguenza apparentemente privo di una morfologia solida, il cinema di Denis Villeneuve, nella ricerca costante di nuovi patti drammaturgici ed estetici, batte su alcuni prominenti chiodi tematici. Quello delle solitudine è sicuramente uno di questi, specie quando incardinato sulla difficoltà di accettarsi da parte del soggetto, secondo una scoperta interiore che spesso necessita di una stasi, come nel film d’esordio, oppure di una lacerante ricerca identitaria nel solco del proprio passato, come accade per la madre di Incendies, passato che diviene responsabile genetico e “ambientale” della formazione individuale della protagonista.
A questo molecolare e prismatico nucleo tematico il regista ha dimostrato di rapportarsi in maniera tutt’altro che tradizionale, quanto piuttosto di porvi come detonatore ricorrente un sapiente uso dei generi cinematografici, che nel caso di Prisoners trova la sua più radicale esecuzione. Le pulsioni umane deflagrano nella maniera più devastante possibile, tanto da porre il concetto di perdita a contraltare naturale di quello della ricerca del sé, come esemplificato dai due protagonisti del film o come si evince in maniera ancor più definitiva dalle immagini di Polytechnique, geometrie tanto chiare quanto senza speranza.
Quello di Villeneuve è un cinema che nel dipanarsi ragiona sempre sull’atto del narrare, o sulla sua impossibilità. Prendiamo Un 32 août sur terre: ad essere raccontata è proprio l’implosione del racconto di fronte alla cruda, nuda umanità (si veda l’abbacinante deserto bianco come forma estrema di svestizione, dello spazio e quindi del soggetto).
O ancora Prisoners, in cui il racconto si incastra in un labirinto che viaggia verso le conseguenze ultime del noir (tanto quanto lo faceva il citato film di Fincher) e portando avanti con tutt’altro stile – perché legato a tutt’altro genere cinematografico – la lezione già vista in Incendies, in cui il passato e presente sono legati a doppio filo da un percorso di ricerca e riconoscimento reciproco.
E infine Enemy, così influenzato dalla nobile e ingombrante presenza letteraria, rispetto alla quale viene però ridotta drasticamente una rete di rimandi narrativi fatta di impercettibili consapevolezze e graduali prese di coscienza, per gettare il film in una dimensione in cui la realtà e la finzione collidono, dove la ricerca della propria identità passa per l’esorcismo della morte, propria e altrui. A questo proposito quello che era un romanzo stilisticamente d’avanguardia ma con un plot decisamente realistico, nella trasposizione diventa un film di fantascienza, nel quale lo spiazzamento del soggetto a seguito del confronto con l’inspiegabile è declinato in un’apocalittica e priva di speranza lotta tra l’uomo e la metropoli.