Arrival

di Denis Villeneuve

Villeneuve resuscita la fantascienza più colta e raffinata in un tour de force linguistico che mette in scena la crisi di Babele e il potere che la comunicazione ha nell’agire umano.

Arrival  - recensione film Denis Villeneuve

Se è vero che il linguaggio è un virus allora comunicare tra estranei significa infettarsi a vicenda. Entrare in contatto, tradurre il proprio pensiero in un altro e viceversa, ci espone al cambiamento, a quella relatività linguistica, ipotizzata dagli antropologi Sapir e Whorf, per la quale il linguaggio ha la capacità di plasmare e modificare il modo che ciascuno ha di percepire e catalogare il mondo.

Per questo nel cinema di Denis Villeneuve, che da sempre pone i propri personaggi di fronte l’illeggibile caos dell’esistenza, l’atto della traduzione diventa il nuovo corpo di un’antica ossessione, un gesto necessario e fondante, rivoluzionario tanto nei legami più intimi del sentimento quanto in quelli più calcolati della ragion di stato. Arrival è una resurrezione linguistica della fantascienza più colta e raffinata, un discorso lucido, visivamente potentissimo, nel quale Villeneuve mette in scena la crisi di Babele e il potere che la comunicazione ha nell’agire umano, in un effetto a scalare che arriva a coinvolgere il concetto stesso di tempo.

Tratto dal pluripremiato racconto di Ted Chiang (Storia della tua vita), Arrival è un film figlio del doppio passo tipico del cinema di Villeneuve, trasformista costante con un piede dentro ed uno fuori da Hollywood, dentro e fuori dai generi. Attraversato il grottesco, il noir, il thriller, e con un sequel di Blade Runner in dirittura di arrivo, il regista canadese esordisce nella fantascienza con tutto il suo talento registico, confermando uno sguardo capace di rinverdire il genere per portarlo al meglio delle sue possibilità. In questo caso la fantascienza per Villeneuve significa anzitutto la necessità di aprire un contatto, un confronto con l’altro basato sulla razionalità di un linguaggio comune e dal quale innescare una ridefinizione della propria identità.

Tuttavia, messa da parte la tensione muscolare e nichilista di Sicario, il pessimismo radicale di Prisoners, la violenza incomprensibile di Polytechnique, Villeneuve sorprende chi lo segue dai film passati perché dimostra di aver trovato in Arrival la chiave della porta del labirinto. Attraverso il personaggio della linguista Louise Banks (una perfetta Amy Adams), il regista canadese rintraccia la possibilità di riparare la frammentazione babelica cui è stato condannato il mondo, e lo fa con la necessità del dialogo e la forza del sentimento, un punto di arrivo non dissimile a quello ricercato da Christopher Nolan nel suo Interstellar. Ma se il film di Nolan fa dialogare mitologia western e sci-fi per riproporre la dicotomia tra ragione e sentimento, Arrival vuole unire i due poli dell’equazione in un unico risultato, mostrando come dall’esercizio della prima possa nascere il secondo.

Attraverso il confronto con gli alieni linguaggio ed emozione si legano indissolubilmente, e da questa unione discende per la prima volta in questo cinema la possibilità concreta di fuoriuscire dal maelstrom dell’esistenza, guadagnando un nuovo e privilegiato punto di vista da cui guardare il dispiegarsi del mondo. E poco conta se nel frattempo le nazioni della Terra coinvolte dall’arrivo degli alieni rompono il dialogo privilegiando la diversificazione dei punti di vista e delle agende personali, una forza nuova e più forte è già all’opera, dispersa tra le pieghe del tempo, invisibile a chi scambia il linguaggio e la comunicazione per nuove armi e strumenti di guerra.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/09/2016
USA 2016
Durata: 116 minuti

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