
“Siamo divenuti improvvisamente ansiosi
che cose e persone dichiarino totalmente la propria natura”.
Marshall McLuhan, Capire i media
Un film come Maps to the Stars non può iniziare né finire, può solo procedere rimandando alla filmografia tutta di David Cronenberg. Si rivela così introiettato nel nostro tempo, così costellato di ossessioni e derive contemporanee, da richiedere una serie di sviluppi che non possono limitarsi alla semplice recensione. Con patina vitrea e glaciale, Cronenberg aggiunge un importante tassello alla sua opera-mondo. Il punto di partenza è quel sostrato teorico che fa della simulazione e dell’artificio i codici della propria esistenza (in questo, e solo in questo, è più che legittimo il paragone con The Canyons di Paul Schrader). E’ ormai chiaro come l’autore canadese respinga qualsiasi idea di essenza, qualsiasi presupposto statico che non veda, continuamente, la messa in scena di un mondo passivamente in fieri. Quasi come se Maps to the Stars fosse una strana, inquietante capsula proveniente dal futuro, in grado di avvolgerci nell’acido torpore di chi, da anni, racconta l’alba (catastrofica) di una nuova carne.
David Cronenberg continua a evocare una dimensione che esclude ogni possibilità di conciliazione, ma che è capace come mai di spalancarsi alle infinite possibilità del mito e dell’inconscio. Dalla visione di un film come questo nasce l’idea della Cronomappatura: una percorso a ostacoli, un ipertesto la cui esegesi è sempre a-venire, un dedalo d’immagini che, lampeggianti, si spengono e accendono nella mente. Luci, volti, suoni e parole (tante, tantissime parole) che rimandano, con tutta la loro forza, non solo al resto del cinema di David Cronenberg, ma anche in territori inaspettati, dove riecheggiano i mondi paralleli di David Lynch, Billy Wilder, Stanley Kubrick e così via.
Ancora una volta il cinema è labirinto, perdersi è meraviglioso.
Buona lettura.