Patty - La vera storia di Patty Hearst

Partendo dalla vera storia di un rapimento, Paul Schrader riflette sulla fragilità e sull’ambiguità delle costruzioni identitarie

Sapevo, o almeno credevo di sapere, chi fossi”. Tre anni dopo quella splendida e complessa parabola sulla labilità dei confini identitari che è Mishima: A Life in Four Chapters e ad un solo anno dal fallimento commerciale e professionale di Light of Day, con Patty Hearst Schrader torna a riflettere su ciò che da sempre avverte come fulcro della propria ricerca umana ed artistica: il problema dell’identità. O meglio, l’identità come problema, il quesito umano per eccellenza, l’enigmatica X nietzschiana, il labirinto; l’instabile, mai conclusivo, approdo degli infiniti percorsi di definizione – e quindi di modellamento, manipolazione – del sé, dell’Io.

La storia del rapimento, della detenzione e del reclutamento/mutamento di Patty Hearst, ricca ereditiera di una delle famiglie più paradigmaticamente americane degli States, una di quelle che a furia di cercarlo, aveva davvero trovato l’oro (il suo bisnonno si trasferì dal Missouri alla California proprio per cercare lucenti pepite, divenendo ben presto abilissimo e lanciandosi con enorme successo nel business dell’estrazione mineraria, mentre suo nonno era il magnate dei media di wellesiana memoria, William Randolph Hearst), si presenta allora come l’occasione perfetta, narrativamente e produttivamente parlando.

La vicenda della giovanissima studentessa universitaria, figlia dell’alta borghesia capitalista, che dopo un periodo di reclusione di 57 giorni sceglie più o meno consapevolmente di unirsi ai rapitori dello SLA, l’Esercito di Liberazione Simbionese, un gruppo paramilitare che si considerava braccio armato di una rivoluzione infarcita di ideologia vicina alla sinistra radicale, per poi diventare una rapinatrice di banche ed essere arrestata dall’FBI era ormai impressa nella mente dell’opinione pubblica americana sin da quando aveva raggiunto la ribalta televisiva, nella metà degli anni Settanta. La pubblicazione del resoconto autobiografico della Hearst nel 1981 aveva provveduto a riaccendere l’attenzione del pubblico sull’argomento e l’adattamento per il grande schermo, sceneggiato dal figlio di Elia Kazan, Nicholas, non attendeva altro se non un coraggioso regista con ragionevoli pretese di budget che trasformasse lo script in immagini. Un progetto ideale, insomma, per “rimettersi in sella” senza troppi patimenti, cosa che Schrader desiderava ardentemente per mettere fine alla devastante depressione seguita all’insuccesso del suo film precedente. Ma fuori dalle ragioni e dalle circostanze materiali, dagli aspetti produttivi che tanto possono dirci d’un film (come ci hanno insegnato Bordwell e Thompson), Patty Hearst trova collocazione all’interno del corpus schraderiano perché è l’ennesima, ulteriore storia di un travagliato cammino identitario, del raggiungimento di quella che può ambire ad essere nient’altro che la parvenza d’una identità attraverso un violento e contraddittorio processo di estraniazione e relazione dal mondo e col mondo, da se stessi e con se stessi. Di disfacimento e rifacimento. Processo che per Schrader non può che compiersi attraverso atti performativi, grazie al continuo perfezionamento di un ruolo, di un rituale, della traduzione degli impulsi più profondi ed insondabili (e improbabili, improponibili, inopportuni) in azione. Come avviene in Mishima, appunto, o in Taxy Driver. Non è un caso che la cellula operativa dello SLA che ha rapito Patty venga mostrata per lo più durante sessioni di esercitazioni paramilitari, mentre ripete vuoti slogan di propaganda rivoluzionaria o riflette sull’effetto che le proprie operazioni avranno sui media. Oppure che Teko (William Forsythe), uno dei membri dal comportamento più farsesco e comico, si copra la faccia di nero e che si impratichisca con lo slang afro-americano davanti ad uno specchio perché convinto della maggiore predisposizione alla leadership degli uomini di colore. La stessa decisione di Patty di entrare nell’esercito di liberazione è per Cinque (interpretato con piglio meravigliosamente buffo da quel Ving Rhames che sei anni dopo sarà Marsellus Wallace in Pulp Fiction), il leader del gruppo – lui sì, nero fino all’inverosimile, a differenza di Teko, ma ugualmente teatrale, farsesco –, nient’altro che “un colpo di propaganda” da sottoporre il prima possibile a shooting fotografico.

I personaggi di Schrader sono spesso così: sfuggono ad ogni piacevole identificazione o facile approvazione morale. Sono scomodi, riflettono la confusione contemporanea, una moralità idiosincratica. Per la prima mezz’ora del film, mentre l’identità di Patty si sgretola nel buio dello stanzino in cui è segregata, dei membri del commando non vediamo che le silhouette affacciate alla porta. Vittima e carnefici condividono un unico obiettivo: l’autorealizzazione, intesa come il bisogno di realizzare a pieno le proprie potenzialità, le proprie capacità. Di estrofletterle, di portarle nel mondo, di trasformare la potenza in atto. Non senza manipolazioni, come si diceva, senza (auto)convincimenti e (auto)focus, entrando in una pericolosa relazione con se stessi e con gli altri, attraverso la performance. Ecco perché durante l’ultima parte dell’opera, dedicata al processo, il pubblico ministero chiede alla ragazza se stesse recitando o meno durante la militanza nello SLA. L’incipit del film, con quell’estratto di voice over che apre questo breve approfondimento (tratto a suo volta dall’autobiografia della donna) è a tal proposito una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un crane shot riprende Patty (Natasha Richardson) mentre cammina nel mezzo di una folla di studenti della University of California, a Berkeley. Per un attimo la sua figura si perde indistintamente tra i corpi dei tanti studenti, per poi riemergere quando la macchina da presa scende verso terra. La voce di Patty accenna ad un’infanzia normale, da privilegiata molto sicura di sé, una che fa piuttosto che pensare, un’atleta più che uno studente, un essere sociale più che un solitario. E’ il caso, l’ignoto (the unknown nella dicitura originale) a sparigliare le carte, a far precipitare l’edificio di una personalità non ancora uscita pienamente dall’adolescenza. Ben lungi dall’essere una critica piena di disprezzo e derisione per le istanze rivoluzionarie come alcuni critici europei si affrettarono a dire all’indomani della proiezione a Cannes, Patty Hearst è un film sulla fragilità dell’identità, sull’ambiguità delle forme che finisce per assumere, sul ruolo degli atti performativi nella sua definizione. Temi che, opportunamente integrati da derive più squisitamente metalinguistiche, saranno al centro del suo cinema che verrà, negli anni Novanta e Duemila, fino a quell’ultimo capolavoro che è First Reformed.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 28/10/2017

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