The Brown Bunny

Nelle immagini sgranate del cinema di Gallo si agitano i fantasmi di un amore che, garrellianamente, si da sempre come già perduto

Se si dovesse individuare una costante nel cinema da regista di Vincent Gallo, questa andrebbe probabilmente identificata nella lotta che i suoi personaggi ingaggiano contro il tempo, contro l’affievolirsi della passione, contro il decadimento del corpo, la morte. Ritorna, con una costanza quasi ossessiva, il motivo dell’incontro declinato di volta in volta come atto di nascita di un amore o, nel caso di The Brown Bunny, come tentativo di superamento di un passato doloroso con il quale non si vorrebbe fare i conti.

Nella famosa sequenza della stanza d’albergo il motociclista Bud Clay ritrova, sotto forma di apparizione fantasmatica, il corpo di Daisy, fidanzata morta tragicamente mesi prima. E in un attimo il tempo sembra fermarsi: i due amanti si sfiorano, si confidano per poi trovare un contatto “impossibile” attraverso una fellatio di scandalosa intensità. Nelle immagini sgranate del cinema di Gallo si agitano i fantasmi di un amore che, garrellianamente, si da sempre come già perduto. Anche in Buffalo 66, film che celebra la rinascita del suo protagonista, la narrazione è schiacciata dal peso insopprimibile di un passato che in qualche modo impedisce una vera e propria progressione. In Promises Written in Water la perdita è annunciata addirittura dalla prima sequenza: tutto quello che vedremo successivamente non sarà altro che il disperato (e vano) tentativo di Kevin di rinviare quanto più possibile il momento dell’addio, attraverso racconti che girano su se stessi e, soprattutto, con l’ausilio di una piccola cinepresa con la quale l’uomo immortala il corpo ancora vitale della ragazza, una dissolvenza prima della morte.

I tre titoli che compongono la filmografia da regista di Gallo possono essere visti quindi come tre frammenti di un unico racconto. Il prima (Buffalo 66), il dopo (The Brown Bunny) e il durante (Promises Written in Water) di una storia d’amore che vede la morte del personaggio femminile. Nei folli comportamenti di Billy (personaggio principale di Buffalo 66), nella sua diffidenza nei confronti dell’altro/a troviamo i segni di una personalità fragile, che sembra già sapere in anticipo come finiranno le cose. Le cicatrici (più morali che fisiche) sfoggiate dai tre personaggi interpretati da Gallo preannunciano la paura della perdita prima ancora che si manifesti. Ciò che più commuove delle (e nelle) immagini galliane è l’ostinazione con la quale i suoi uomini affrontano il destino, quasi consegnandosi ad esso. Come se l’amore, la forza di una passione dirompente (che è anche per un certo cinema del passato, continuamente evocato) fosse più importante di tutto il resto e valesse in ogni caso la pena di essere vissuto. E’ anche per questo che The Brown Bunny rappresenta probabilmente l’apice della sua carriera registica: qui troviamo condensate gran parte delle sue ossessioni cinefile con un racconto rivolto al passato (nella forma del road movie, nella colonna sonora) che se ne frega delle principali regole cinematografiche per dedicarsi alla radiografia di un volto segnato dal dolore.

Nel falso movimento di Bud, che attraversa l’America di provincia da costa a costa per consegnarsi volontariamente ad un luogo (la stanza d’albergo) e ad una persona (Daisy) che non ci sono più, a colpire è il costante grado d’indeterminatezza che emanano le immagini, come se fosse impossibile poter stabilire il tempo e i luoghi della narrazione. Quella di Bud è una sorta di soggettiva emozionale, di chi pur muovendosi nel presente non può fare a meno di guardarsi indietro e di vedere la realtà che lo circonda con gli occhi dell’amante ferito. Davanti al suo parabrezza si alternano visioni di Daisy e di strade desolate, di anonimi caseggiati e di disponibili corpi femminili, il tutto senza che sia possibile scindere il ricordo dalla fantasia. Quando nell’ultima sequenza vediamo all’improvviso bloccarsi l’immagine mentre il sonoro della strada continua a riecheggiare, comprendiamo che nonostante tutto il protagonista non avrà mai pace, che non ci potrà mai essere una vera conclusione per la sua storia: ci sarà sempre uno scarto (in questo caso il suono) che lo terrà legato all’immagine, che gli impedirà di potersi liberare dai propri fantasmi. Esattamente come in Promises Written in Water: il corpo di Mallory continuerà a vivere nelle immagini e nelle foto di Kevin in una sorta di rituale che vede l’atto del filmare e del farsi filmare come una condanna dalla quale non si può fuggire.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 18/02/2015

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