Brimstone

Nel primo film internazionale di Martin Koolhoven Guy Pierce è un predicatore psicopatico deciso a punire la donna che rifiuta di obbedirgli.

“Un grande balzo verso Ovest”.

Questa è stata, in massima sintesi, la storia della nascita degli Stati Uniti secondo uno dei suoi presidenti più significativi, Theodore Roosevelt. Una progressiva espansione verso il Pacifico ad opera degli innumerevoli immigrati provenienti dal vecchio continente, che cominciavano a diventare americani rimanendo però fortemente influenzati dalla morale vittoriana e dalla religione protestante. Del resto gli effetti della riforma luterana costituivano buona parte delle ragioni per cui i primi coloni giunsero in America e i successivi sviluppi, soprattutto ad opera di Calvino, sono fondamentali per capire il background etico-religioso delle prime colonie americane.

In Brimstone, primo film internazionale dell’olandese (non a caso un paese calvinista, protestante) Martin Koolhoven, la frontiera del vecchio west è una prepotente linea di demarcazione tra i vecchi usi e costumi europei e quelli della “terra promessa” oltreoceano. E, manco a dirlo, è l’uso della violenza – insieme all’individualismo, all’ottimismo e a prime forme rozze di eguaglianza – a determinare in maniera preponderante il cambiamento identitario.

Parossisticamente violento e autoritario è il reverendo interpretato da Guy Pierce, un predicatore tutto fire and brimstone (uomini di Chiesa che ricorrono spesso ad immagini vivide per evocare la dannazione eterna e favorire il pentimento) che intima a moglie e figlia di dimenticare una volta per tutte la lingua olandese. Violento, iperbolico e sinistramente allusivo è il primo sermone che pronuncia nella chiesetta della colonia dov’è appena giunto. Poche parole chiariscono ben presto che si tratta di un lupo vestito da pecora.

Liz (Dakota Fanning), la levatrice del luogo, affetta da mutismo e sposata ad un uomo molto più anziano, è l’unica a sapere veramente chi si trova dinanzi ed è la prima a subirne il terribile giudizio. Costretta a scegliere in pochi istanti tra la vita di una madre e quella del neonato che sta partorendo, la donna si ritrova suo malgrado qualificata come un’assassina meritevole di una punizione che ha, in realtà, ben altre ragioni che il presunto infanticidio. Ragioni consolidate in un tempo ormai passato e che soltanto il reverendo e la stessa Liz conoscono. Tre quarti del film, diviso per l’appunto in quattro sezioni dal titolo biblico (Rivelazione o Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo), servono proprio a spiegare la relazione tra Liz e il predicatore e a delinearne le parabole esistenziali, oltre che a chiarire altri interrogativi, tra cui la causa della sua incapacità di articolare parole e del suo matrimonio con il vecchio Eli.

Attraverso lo srotolamento della trama che procede all’indietro fino alla fine del terzo capitolo, scopriamo che Liz ha rifiutato un matrimonio incestuoso e – in piena linea con il luteranesimo di fondo della mentalità dei nascenti Stati Uniti (Lutero scrisse: “La parola e l’operato di Dio sono oltremodo chiari: che le donne sono fatte o per essere mogli o per diventare prostitute) – è finita in un bordello gestito da Frank (un credibile Paul Anderson), spregevole sfruttatore che per salvaguardare gli affari non esita ad applicare un rigido quanto personalissimo codice giuridico-morale, aiutato in questo dal fratello sceriffo.

Nell’arco di vita della ragazza spicca una forza che ne fa un personaggio femminile eccezionale, soprattutto per il genere, o meglio i generi, che il film attraversa; sicuramente l\'aspetto più convincente dell’opera.

Conosciamo il primo amore di Liz, un uomo spietato (siamo sempre nel selvaggio West) ma dall’animo nobile di nome Samuel (Kit Harrington), e Anna (Carice van Houten) la moglie del reverendo, una povera donna sottomessa a distorte interpretazioni della Bibbia e a continue flagellazioni. E col passare dei lunghissimi 148 minuti del film, arriviamo all’atteso confronto finale e alla tanto evocata punizione, in un climax molto simile (per molti versi, su cui sorvoleremo) a quello di The Revenant.

Ma laddove le incursioni simboliche del film di Iñarritu si rifacevano ad interessanti modelli cinematografici come il Rublev di Tarkovsky senza mai diventare stucchevoli ed eccessive e, al contempo, la sua abbondante dose di violenza veniva utilizzata in maniera convincente, il simbolismo di Koolhoven è invece maldestramente pacchiano e prosaicamente banale. L’infinita parata di allegorie cristiane fatta di flagellazioni, apparizioni di improbabili angeli dai riccioli scuri (Harrington) e fiamme infernali, e l’ossessione per il sangue (quello mestruale soprattutto, ma anche quello dei maiali, delle pecore, delle viscere squartate o delle ferite da armi) unite ad alcune trovate giustificate unicamente da uno sterile desiderio di colpire lo spettatore senza intrattenerlo o incutere un sano terrore come nell’horror di qualità (l’impiccagione inutilmente spettacolare della moglie del reverendo nella chiesa del paese, con tanto di maschera di ferro a coprirne il viso; ma anche gli elementi più splatter, dal vecchio impiccato con il suo stesso intestino al corpo di un fuorilegge divorato dai maiali) costituiscono dei punti talmente deboli, talmente estranianti da pregiudicare la tenuta emozionale dell’intero film, che procede esclusivamente per inerzia narrativa fino ad poco prima dell’epilogo.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 03/09/2016

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