Bifest 2015 / Shelter
Al Bifest arriva Shelter: il talentuoso attore Paul Bettany passa dietro la macchina da presa con le migliori intenzioni, per raccontare la drammatica e disperata love story di una coppia di homeless
Ispirato da una coppia che viveva a New York proprio sotto casa sua, scomparsa dopo l’uragano Sandy, Paul Bettany ha scritto una sceneggiatura carica di drammi, miseria e disperazione, nonché umiliazione, fame e tossicodipendenza. Ha giocato un ruolo fondamentale il senso di colpa, per non aver mai provato ad attraversare quella linea di confine insormontabile che divide la sua vita dal popolatissimo mondo dei senzatetto, spingendolo ad appiccicare il suo sguardo ai corpi e alle vite dei protagonisti del suo debutto. Il loro viaggio oscuro, doloroso e privo di speranza è accompagnato dalla musica composta per l’occasione da James Lavelle (Unkle) e da alcune sequenze oniriche di innegabile potenza visiva, ma che finiscono per esprimere metafore troppo scontate e sopra le righe. Bettany ha dichiarato che con la sua prima regia (tre settimane di riprese, quasi esclusivamente realizzate con una sola macchina a mano) non intendeva assolutamente raccontare quanto sia brutto vivere per strada o farsi di eroina, che sono concetti ovvi ed ampiamente condivisi. La sua intenzione era di realizzare un film sul giudizio. Giudizio divino, più che altro. Infatti i due protagonisti passano molto tempo a confrontarsi sull’argomento.
Tahir, immigrato dalla Nigeria e a rischio deportazione, sopravvive suonando delle percussioni improvvisate nei giardini pubblici. Di ritorno al suo giaciglio a cielo aperto, scopre che le sue poche cose sono state rubate. Quando riconosce una sua giacca addosso ad una ragazza, comincia a seguirla, fino ad un ponte deserto. La ragazza si chiama Hannah, e ha intenzione di suicidarsi. Tahir la blocca e lei, fino a quel momento dura e aggressiva, cede ad un crollo emotivo e si scioglie in una crisi di pianto. Da questo primo drammatico approccio, si svilupperà una relazione che diventerà progressivamente condivisione totale e amore. Hannah è tossicodipendente, atea e vive di elemosina (sul cartello che tiene in mano mostrandolo ai passanti c’è scritto “una volta ero qualcuno”), si è lasciata alle spalle una famiglia e una vita borghese. Tahir è musulmano, il suo è un passato di violenza e crimini di guerra indicibili. I due mondi così distanti, ma accomunati dalle difficoltà della vita in strada, si aprono l’un l’altro totalmente, mentre Hannah si impegna per disintossicarsi una volta per tutte, forte dell’aiuto datole da Tahir. Attorno a loro, una città fredda e distante – aliena, più che ostile – nella quale niente è gratis e tutto ha un prezzo. E se non si possiedono soldi e oggetti di valore, si può sempre pagare con il proprio corpo.
E’ Jennifer Connelly, moglie del regista, a vestire i panni di Hanna, dimagrita in modo impressionante per il ruolo: i suoi splendidi occhi, però, e una straniante sensazione di assistere ad un eccessivo over-acting, danneggiano la sua prova tanto da farla sembrare artificiosa e poco credibile. Questo è anche il principale problema del film: Bettany calca troppo la mano, preoccupato forse di risultare poco realista, ottenendo l’effetto contrario e ricoprendo il suo film di una fastidiosa patina retorica e tediosa. Un piccolo film inglese per la tv, Stuart A Life Backwards del 2007, raccontava una storia altrettanto dura, forse ancora più dura, ma con un tocco leggero e delicato ricco di ironia e assolutamente privo di retorica. Le storie sono importanti, ma è più importante il modo in cui le si racconta. E quello di Paul Bettany è il modo sbagliato.