Bifest 2015 / The Gate
La storia vera di François Bizot, prigioniero dei Khmer rossi, in un film che mette a fuoco con la giusta tensione il malsano rapporto tra vittima e carnefice nella suggestiva giungla cambogiana
Con il potere in mano ai Khmer Rossi, François Bizot è stato l’unico occidentale sopravvissuto alla detenzione in Cambogia. Etnologo, fu catturato nel 1971 mentre lavorava al restauro dei templi di Angkor, accusato di essere una spia della CIA e tenuto prigioniero nel bel mezzo della giungla, in un campo gestito dal giovane compagno Duch. Più di trent’anni dopo ha pubblicato due libri che raccontano la sua storia, una storia di dilemmi morali e catastrofi umane e politiche. Régis Wargnier ne ha tratto un film: Les temps des aveux, il tempo delle confessioni (The Gate è il titolo internazionale). Durante la presentazione al Bifest, sul palco del Petruzzelli, Wargnier (regista dell’Oscar-winning Indocina) ci ha raccontato che avrebbe voluto girarlo già anni addietro, ma Bizot si era sempre opposto per la natura intima e dolorosa delle sue memorie. Poi però è successo qualcosa che ha fatto cambiare idea a Bizot, e il cancello si è potuto aprire. Quel qualcosa è anche l’epilogo del suo film, beffardo e agghiacciante come un sorriso gentile sul volto di un pluriassassino.
Bizot (che nel film ha il volto di Raphael Personnaz) arriva in Cambogia nel 1965, e prima di essere catturato ha potuto assistere agli scellerati errori dei francesi (nei panni dell’ambasciatore riconosciamo l’inconfondibile volto di Olivier Gourmet), e sopratutto degli americani: piombati in Cambogia con il loro solito tradizionale atteggiamento, assolutamente ignoranti e all’oscuro del paese che volevano stravolgere, delle sue tradizioni e del suo popolo. Arrestato per spionaggio, viene a lungo interrogato da Duch (Phoeung Kompheak, straordinario interprete, una prova assolutamente indimenticabile), un ex insegnante di matematica dal volto luminoso e gentile: un uomo devoto alla rivoluzione, pieno di principi e convinzioni, capace di ordinare torture ed esecuzioni sommarie a raffica senza il minimo dubbio, certo di fare sempre la cosa giusta. Tra i due si crea un legame inatteso, assolutamente non desiderato da Bizot: suo malgrado dovrà aggrapparvisi come ad un’ancora viscida e repellente. Duch a suo modo si fida delle parole del francese: pur continuando ad interrogarlo ed accusarlo, si incarica di sostenere la sua innocenza presso il comitato dei dirigenti rivoluzionari. Il carnefice diventa l’unica possibilità di salvezza per François Bizot.
Girato interamente in Cambogia, il film di Wargnier ha il suo punto di forza nell’interpretazione efficace di molti attori non protagonisti, tra i quali, ripetiamo, Phoeung Kompheak è sensazionale. Ha avuto modo di studiare il vero Duch lavorando come traduttore presso il tribunale, e siamo certi che questa sua prima esperienza sarà la rampa di lancio per una lunga carriera nel cinema. Ha dichiarato: “valuterò le eventuali proposte e deciderò volta per volta, mi piacerebbe recitare in altri film, soltanto se però sono progetti interessanti; sono troppo impegnato con il teatro, il tribunale e l’università”. Idee chiare e personalità forte, insomma. Le questioni e i dilemmi morali messi in scena assumono facilmente carattere universale, trascendono la lontananza geografica e storica delle vicende narrate riuscendo a coinvolgere lo spettatore occidentale. Il regista si è avvalso del fondamentale aiuto del collega Rithy Panha, uno che sulla storia del suo paese lavora da sempre, nelle vesti di produttore in The Gate. Non è comunque un film perfettamente riuscito: stride il contrasto tra le tragedie dei diversi subplot (e la drammaticità della vicenda narrata) e lo stile delle riprese – anche a causa della bellezza naturale delle locations – sempre pulite ed eleganti, ma piatte. L’orrore è sempre fuori campo, e diventa visibile soltanto quando assume la forma di una distesa di teschi dall’effetto scenico infernale e suggestivo. E’ convincente, invece, l’assenza di picchi emozionali e accenti melodrammatici (al contrario di Indocina) o musiche stucchevoli, che avrebbero distolto l’attenzione dal cuore del film: il rapporto tra la vittima e il carnefice, ricco di ambiguità e tensione, che cova come un fuoco freddo a bassa intensità per tutta la pellicola (mentre i due discutono di politica, religione, filosofia e letteratura) e che si ribalterà in un’inaspettata evoluzione nel 2003.