Assalto al cielo
Nel valzer di Munzi sul lungo Sessantotto, il vero protagonista è l'archivio.

Costruito interamente su materiale di repertorio, il quarto documentario di Francesco Munzi, presentato fuori concorso a Venezia, racconta l’epopea dei movimenti studenteschi che animarono le lotte politiche extra-parlamentari tra il 1967 e il 1976 in Italia. Il titolo Assalto al cielo richiama direttamente la definizione che Marx diede dell\'impresa rivoluzionaria della Comune di Parigi (1871). Lo stesso slogan sarà, poi, utilizzato dai maoisti durante la Rivoluzione culturale cinese, così come dagli studenti dei movimenti extraparlamentari francesi e italiani tra il 1967 e il 1969. Non è un caso che Munzi decida di iniziare la narrazione proprio a partire da quel 1967 che vide le prime avvisaglie dell’acuirsi della conflittualità politica che esploderà definitivamente nel biennio successivo.
Se spesso con il termine Sessantotto si tende a considerare, appunto, una stagione a cavallo tra due anni, il regista romano dimostra di volersi spingere oltre, raccontando quali sono stati gli effetti di quei movimenti sulla radicalizzazione politica del decennio che segue. Buona parte della pubblicistica è solita ricondurre l’ideologia sovversiva del movimento del Settantasette agli ideali rivoluzionari del Sessantotto. Munzi decide, però, di fermarsi sulla soglia del 1977, interrompendo la narrazione proprio alla fine dell’ultima edizione del Festival del proletariato giovanile, organizzata nel 1976, al Parco Lambro di Milano, dalla rivista di controcultura Re Nudo. Più volte interrotto per motivi di ordine pubblico – tra cui alcuni arresti per spaccio di eroina ed espropri proletari – questo evento, cui parteciparono più di quattrocentomila persone, sembra rappresentare un punto di svolta nella radicalizzazione dei movimenti della sinistra extra-parlamentare italiana. Il film, pertanto, intendendo ribaltare la vulgata sopra citata, individua in questa fase, e quindi nel 1976, la fine del cosiddetto «lungo» Sessantotto, aderendo a una già salda impostazione storiografica militante e di movimento.
La stessa struttura del film richiama la precisa scelta cronologica compiuta dal regista. Diviso in tre distinti “movimenti”, come fosse un’opera sinfonica, il film finisce per ripensare il periodo a cavallo tra anni sessanta e settanta a partire da tre diverse stagioni di lotta, che si amalgamano in un valzer avvolgente: un primo movimento, intitolato “Vogliamo tutto e subito” (1967-1969), sulla nascita delle lotte studentesche e sulle sinergie di quest’ultime con le rivendicazioni operaie; un secondo periodo di assestamento, chiamato “Magari anche la rivoluzione” (1969-1975), dove a partire dalla strage di Piazza Fontana ci si interroga sull’eredità dei movimenti nell’Italia della «strategia della tensione»; un movimento conclusivo, “Se gli uomini sono Dèi” (1976), che si concentra sulla già citata manifestazione tenutasi a Parco Lambro. La storia dello stragismo e del terrorismo ricopre, quindi, un ruolo di assoluta marginalità. Non arrivando cronologicamente al 1978, le vicende connesse alle Brigate Rosse sono volutamente lasciate sullo sfondo – trattate soltanto nel secondo movimento, con un breve riferimento alle ripercussioni sui movimenti di alcuni eventi rilevanti, come il sequestro del giudice Sossi e la morte del brigatista Walter Audisio. Quella fase, infatti, fa già parte dei ricordi del regista, appena novenne quando un commando delle BR, nel 1979, gambizzava un politico democristiano nell’androne di casa sua.
Oltre all’impianto narrativo, la particolarità del film risiede nell’utilizzo esclusivo di immagini e suoni di repertorio. Si tratta un documentario di ricerca e di montaggio, dove l’archivio sembra essere il principale protagonista. Frutto di ricerche nei principali archivi audiovisivi italiani (l’Archivio storico istituto Luce, le Teche Rai, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, la Cineteca di Bologna e l’Associazione Albero Grifi), le fonti utilizzate nel film, molte delle quali già viste in altri documentari sullo stesso tema, derivano tutte da uno sguardo dal basso sul movimento. La pressoché totale assenza di immagini istituzionali, così come di qualunque discorso da parti di noti leader politici, permette infatti allo spettatore di calarsi dall’alto su quegli anni, e di poterli osservare da vicino. Inoltre, le fonti audiovisive, sia a colori che in bianco e nero, sono spesso affiancate, accavallate, sovrapposte da una serie di fonti sonore coeve al periodo preso in esame. Si tratta, soprattutto, di commenti audio già utilizzati in altri prodotti dell’epoca, oppure di sonori di repertorio provenienti dalle prime radio libere – Radio Alice e Radio Popolare tra tutte. La classica voce narrante della tradizione documentaristica lascia, quindi, unicamente all’archivio il ruolo di guida e orientamento dello spettatore.
Anche se la selezione delle fonti e il conseguente montaggio appaiono evidentemente indirizzati da un punto di vista interno al movimento, questo viene spesso intrecciato con altre immagini, certamente più rare e meno viste, provenienti dall’area neofascista, che in quegli anni osteggiava gli omologhi movimenti della sinistra extra-parlamentare. Non si tratta esclusivamente dei soliti filmati degli scontri nella Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma, ma di altre immagini di repertorio, anche queste girate dall’interno, solitamente escluse dai racconti audiovisivi precedenti. Sono proprio le memorie e le narrazioni autobiografiche dei protagonisti di quegli anni ad aver radicalizzato i fatti e la loro interpretazione, rendendo il racconto di una stagione complicata ancora più difficile e controverso, spesso trasformato in un campo di battaglia ideologica fondato su polemiche ridondanti. Se le memorie personali dei “sopravvissuti” hanno spesso influenzato lo stesso utilizzo del materiale d’archivio, la scelta autoriale di Munzi, che adotta uno sguardo di un quarantenne che non ha niente a che fare con quei movimenti, conduce il film in una direzione completamente opposta: ovvero quella di asciugare la trasudante emotività dei racconti epici ed eroici della “seconda Resistenza” per ragionare, finalmente, sull’autonomia documentale dell’archivio e sulle sue funzioni memoriali e filmiche.
Assalto al cielo non è un racconto per reduci, e non è nemmeno un film esegetico o antologico sul Sessantotto. Non è, neanche, uno sguardo obiettivo sul passato – ma non potrebbe essere altrimenti. La stessa selezione delle fonti, seppur basata su immagini documentarie, è sempre frutto di una soggettività che, anche se non orientata da una politicità riconducibile a quegli anni, definisce comunque un preciso punto di vista, uno sguardo che lascia molte cose in sospeso e un’autonomia decisionale allo spettatore su dove collocarsi, in base alla propria esperienza, di fronte a quel folle, irrazionale ed utopico assalto al cielo.