Al primo soffio di vento

Una poesia in immagini per descrivere un rovente pomeriggio estivo in una tenuta di campagna

Quarto lungometraggio di Franco Piavoli - che nel corso del tempo ha mantenuto perfettamente inalterate la coerenza estetica e l’estrema purezza dello sguardo - Al primo soffio di vento torna a descrivere lo spettacolo suggestivo della Natura, con i suoi colori, le sue luci cangianti, i sussurri del vento e i mormorii dell’acqua. Ma uno spazio non indifferente, in questa indagine visiva e poetica, è riservato alla presenza umana; fulcro della riflessione è tuttavia la relazione uomo-ambiente, più che l’interazione tra individui. Del resto, i personaggi che popolano il film – una famiglia descritta nell’ozio di un rovente pomeriggio estivo, in una grande tenuta di campagna – pur condividendo affetti e luoghi sembrano non interagire quasi per nulla tra di loro; piuttosto, appaiono persi nei rispettivi soliloqui con il mondo, rapiti da pensieri privati, sogni e incubi, assorbiti da silenziosi passatempi, tormentati da ricordi lontani o stuzzicati da nuovi ardori.

Antonio, il proprietario della cascina, si rifugia nella sua biblioteca, per smarrirsi con piacere in riflessioni sulla genetica che lo aprono ad orizzonti di pensiero quasi filosofici; sua moglie, insofferente, ritrova infine la calma incorniciando foglie di menta pressate per arricchire la sua collezione, richiamando alla mente i versi delle Argonautiche di Apollonio Rodio ai quali fa riferimento il titolo: la descrizione dell’incontro tra Medea e Giasone, immobili come due alberi con le radici ben piantate nel terreno, che però “al primo soffio di vento” si animano di improvvisi e fitti sussurri, in una conversazione tutta intrisa di desiderio.

Nel frattempo la figlia maggiore, nella penombra tenue della sua stanza, suona al piano Satie e Ravel, e sono queste le uniche – meravigliose - note che fanno da colonna sonora al film, insieme al canto ostinato delle cicale e – brevemente – ai tamburi dei lavoranti africani che improvvisano una danza in riva al fiume, al tramonto. Sono loro, che faticano sulle terre della tenuta, l’elemento di rottura dell’incandescente, statica quiete pomeridiana: corpi che tracciano un movimento che infrange la piattezza silenziosa del paesaggio giallo dei campi, voci prorompenti che raggiungono le finestre aperte delle stanze immobili.

Altrove, nel verde tenero dei boschi, la figlia minore vaga curiosa e rapida tra gli alberi, i capelli rossi un guizzo di colore nell’ombra: insegue – o è inseguita? – dei ragazzi che nuotano nel fiume e poi dei centauri che corrono rombando sulle loro motociclette. All’inquietudine vivace della ragazzina che è sinonimo di vita, sete di scoperta e conoscenza, fa da contrappunto la figura del nonno, costretto al letto, rassegnato a una inevitabile solitudine. Infine, rapita in un ricordo remoto e sempre più evanescente, l’anziana zia si avvia verso la stazione probabilmente nell’attesa di un amore che esiste ormai solo nella sua mente.

Come già osservato in relazione allo splendido Nostos, quello di Piavoli è un cinema dove sceneggiatura e dialoghi sono quasi azzerati in nome della preminenza dell’immagine pura, tanto che la composizione di ogni inquadratura è studiata con tale precisione e raffinatezza da costituire un’entità autonoma, autosufficiente. La luce, carpita in ogni suo minimo mutamento, è spesso, assieme alla Natura, la vera protagonista dei suoi film. Ma stavolta sono anche i personali passatempi dei protagonisti a offrire l’occasione per spingere questo poema di immagini verso scelte compositive più artificiali e stilizzate: vediamo collage quasi astratti di occhi in primissimo piano – quelli osservati nei libri da Antonio, quelli dei gatti che vagano per le stanze – e ancora montaggi stridenti di scene diverse, ovvero l’annoiato zapping televisivo dello stesso personaggio. E’ proprio con il suo sguardo distaccato ma acuto, da entomologo, che Piavoli fa spesso coincidere il proprio punto d’osservazione, e dunque anche quello spettatoriale: gli insetti che camminano sul vetro di una finestra, i braccianti africani visti da lontano, quasi spiati, e poi i bellissimi “Ritratti del Fayyum” che si affacciano - di nuovo - dalle pagine di un libro, volti che ci guardano con sorprendente, perturbante espressività da un mondo sepolto eppure straordinariamente vivido e presente.

Al primo soffio di vento - come le precedenti prove registiche di Piavoli – è il frutto di una percezione poetica, limpida, mai banale, del quotidiano e della Natura, una riflessione sullo scorrere del tempo e, in un certo qual modo, sul senso dell’essere, radicale nella sua elegante essenzialità. Ma è, soprattutto, un modo altro – e uno dei migliori possibili - di fare cinema: perché nell’imposizione di una studiata lentezza Piavoli offre l’occasione di una totale purificazione dello sguardo, che può infine assaporare e comprendere ogni dettaglio.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 22/07/2016

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