La bellezza della carne: il cinema di Sion Sono

Alla luce di "The Whispering Star" riesploriamo alcuni titoli della filmografia di Sion Sono, alla ricerca della costante radioattiva del suo cinema.

L’amore è un processo radioattivo, l’esposizione ai suoi raggi può essere abbagliante: demone gentile e multiforme, angelo ardente e misterioso, in grado di possedere, attrarre e respingere corpi, in un gioco di calamite che mischia l’alto con il basso, l’immagine elegiaca con la serie b, Beethoven con i jingles pubblicitari, il dramma con il teen-movie, il rigore geometrico con la ripresa amatoriale. Il cinema di Sion Sono rifiuta l’imbalsamazione a favore di una vitalità prorompente, di una furia tutta cinetica in grado di sprigionare un mare d’immagini, scritte in sovrimpressione, temi musicali e liquidi vischiosi. Nell’impossibilità di un’analisi sistematica quest’articolo vuole soffermarsi sulle voci fondanti del suo cinema: verbo, carne, movimento, esposizione, contagio e simulazione prendendo in esame solo un piccolo gruppo di film e non la sua intera, nutrita filmografia.

Verbo, carne e movimento.

1985. L’opera di Sion Sono si genera nell’atto stesso di filmare-filmarsi, di fagocitare la vita quotidiana entro (e oltre) i confini dell’immagine-movimento. Sono, poeta divenuto regista, intercetta fin da subito la sua cifra stilistica nell’associazione fra parola e movimento: in I Am Sono Sion!, suo primo cortometraggio, si riprende in 8mm mentre legge le sue poesie e sottopone la vita quotidiana, il mondo (il suo mondo) al cineocchio. Emerge subito un immaginario liquido, un feticismo bizzarro per tutto ciò che è inorganico, una dimensione orrida ma dolce, spiacevole eppure seducente: siamo già nei territori dell’attrazione-repulsione, binomio privo di possibilità di sintesi. Nel cinema di Sono alberga infatti la contraddizione, l’ossimoro, la prospettiva masochista di un amore incondizionato, di un sentimento che è piacere e assieme dolore. Sotto questo aspetto Cold Fish rappresenta il suo film-manifesto: tra sangue e interiora, Sono riscopre l’osceno, ovvero il potenziamento massimo, parossistico, della sessualità. Si potrebbe anche affermare che Cold Fish si configuri come una sorta di educazione a un’altra grande bellezza, quella delle frattaglie e della carne, delle viscere e delle budella, dove si svela la meraviglia bestial-ancestrale di ciò che ripugna e affascina. Ma già nel corto seminale sopracitato la nausea, il ribrezzo, il dolore si rivelano la base quintessenziale del desiderio erotico. Così vediamo Sion Sono simulare orgasmi e poi urlare come un animale mentre un amico gli taglia i capelli col rasoio elettrico. La carne e il verbo vengono intercettati come i veicoli cardine di un’immagine-confessionale, di un’operazione terapeutica in bassa definizione.

Ma poi succede qualcosa: l’immagine scompare dissolvendosi nel blu dello schermo e rimane solo la parola. "Camera! Riesci a vedere la mia faccia?”. Seguono immagini sfocate, l’idea di una pelle scomposta, fuori fuoco, praticamente astratta. Vediamo già come in uno specchio oscuro e in questo sfacelo blu le parole evocano immagini. Persone che ridono felici, bevono Coca-Cola, mangiano hot dog, ma “niente è su pellicola. Non si vede nulla”. Rimane solo la dimensione orale, inscindibile dall’idea di messa in scena di Sono: basta vedere l’uso magistrale che fa della voice over in un film come Noriko’s Dinner Table. La parola è la chiave di un mondo interiore, la leggerezza del racconto contro la brutalità dell’immagine. La narrazione nei suoi film non è lineare, ma piuttosto concentrica: gira su se stessa, si apre a digressioni mentre disegna metafore e punti di fuga. La voice over spesso riunisce i pezzi, che sia quella letteraria, metalinguistica della giostra chiamata Strange Circus (che si nutre dell’ambiguità del sogno) o quella di una parola che si è fatta corpo, ricettacolo letterario, rifugio dal mondo in Guilty of Romance.

Ma le parole non bastano. Eccoci a Why Don’t You Play in Hell?, furente elogio del movimento, di quel flusso vitale e dirompente che vede il cinema come un grande, preziosissimo gioco. La vita, la morte, e tutto ciò che intercorre fra queste due sfere, è rappresentabile, filmabile, simulabile. E’ come se quest’ultimo film testimoniasse la vittoria del cinema sulla realtà e dell’immagine sulla parola (come a dire: le parole si dimenticano, sono le immagini che rimangono). Il sangue è reale, gli uomini periscono, ma il cinema è in grado di riportarli a nuova vita, di donargli un movimento di ventiquattro fotogrammi al secondo. Non si tratta più di salvare la forza letteraria dell’immaginazione, di fare della parola il rifugio luminoso e lontano, bensì di salvare il proprio passato e, insieme, il proprio futuro. Fare cinema per Sono significa salvaguardare la propria stessa umanità, come suggerisce l’ultimo bellissimo The Whispering Star dove la macchina è l’ultimo ricettacolo di un umanismo impossibile. Certo, il rischio di perdersi negli abissi pop, nei divertissments miikiani, dell’iperprolificità degli ultimi anni è sempre dietro l’angolo (basti pensare a Tokyo Triibe), eppure un film come The Whispering Star testimonia ancora come Sono possa essere un regista capace di reinventarsi, stupendo tutti con un autentico film-ufo.

Esposizione, contagio e simulazione.

Con Cold Fish, opera di un nichilismo estremo, in grado di sentire il dolore senza artifici, Sion Sono trova nell’insensatezza della vita, nel destino della Terra stessa il suo fulcro narrativo. Il nostro pianeta è nato 4,6 miliardi di anni fa e tra 4,6 miliardi di anni cesserà di esistere: non vi è alcun essere umano che non sia alimentato da una spinta autodistruttiva. Il sesso e la violenza diventano così il canale privilegiato per la riscoperta di una bestialità primigenia, di un’identità che sembrava perduta. Sono si muove nei territori sudici del rimosso e del non concesso, lavorando a una sua interessante idea di violenza. Cosa altro è la violenza se non un bacillo fetido, un germe immondo, un microbo destinato ad infettare ogni emisfero della psiche? L’embrione è ipodermico ma affiora sempre in superficie. Il virus viene trasmesso di individuo in individuo, infetta la mente e conduce alla follia, così come invade i computer. Ma non è solo la violenza a essere contagiosa, bensì qualsiasi sentimento umano. Bisogna però tornare al momento della sua stessa esposizione, al colpo di fulmine, all’epifania. A Love Exposure, summa assoluta di Sono, nonché uno dei capolavori fondamentali del nuovo millennio pop.

Setacciando un mare d’immagini si ricerca sempre l’isola protetta, il punto di non ritorno, l’istante stesso in cui tutto si può fermare. Yu sfonda il finestrino di una macchina e, dopo aver tanto patito trova la mano della sua unica, devota amata, della sua sola, santa Maria, e finalmente la prende. Storia delle storie, cantico dei cantici, origine di ogni liturgica, sacra visione, il due diventa uno ritornando all’unità perduta. Ma si tratta di un istante, di un momento passeggero eppure (già) eterno. Perché l’immagine si blocca, abitando la sconfinata stasi della fotografia. Love Exposure svela il procedimento di lavoro di Sono, il processo di creazione artistica, la morale, la sua visione e il suo incubo quotidiano (quello di perdersi e smarrire la propria ragione, il proprio devoto, incondizionato amore). Il film è il canto appassionato di due amanti che non fanno altro che inseguirsi, a volte consapevoli del loro amore, a volte smemorati, a volte distratti, a volte fraintesi, eppure mai completamente sopiti. Yu e Yoko sono le cellule ribelli di una società malata, di un ordine familiare corrotto fin dalle fondamenta, di un padre che immagina il perdono ancora prima del peccato. E’ come se Love Exposure fosse la risposta al suo stesso cinema. Perché è un film di amanti ma anche di fratelli, è un film di uomini ma anche di travestiti. L’opera di Sono si rivela ingenua, piccola, quasi artigianale, ma disperatamente, ostinatamente ubriaca d’amore. Quando Yoko grida a Yu il capitolo tredici della Prima Lettera ai Corinzi, la settima di Beethoven potenzia dolore e bellezza, bellezza di una vita tutta tesa verso un amore impossibile, capace di legittimare ogni gesto, ogni gentilezza, sopruso e dolore.

L’amore paziente, l’amore contagioso, l’amore oltraggioso, l’amore totale: un corpo esposto è soprattutto un corpo infetto. Eccoci finalmente a Suicide Club, insospettabile storia d’amore collettiva che immagina un ritorno alla comunità, al gesto mitico e rituale, al qui e all’ora nella vita e nella morte. Il suicidio collettivo come nuova declinazione dell’orgia, come ritorno all’uni(ci)tà. Si pensi alla sequenza iniziale, autentica mappa del dolore dov’è situato il cinema tutto di Sion Sono. Si ritorna sempre a quel giorno diverso da tutti gli altri, alla metropolitana di Shinjuku: cinquantaquattro studentesse liceali allineate sulla banchina, si tengono per mano, parlano, sorridono e poi, improvvisamente, si gettano sotto il treno in corsa. Suicide Club ha segnato gli anni zero perché racconta il suicidio di massa come moda del nuovo millennio, come (s)lancio pop, come lato oscuro, inscindibile dalla patina: Mail Me cantano le Dessert, band di teenager, e intercettiamo subito il trionfo glamour del gesto sacro e proibito: autentico e mortuario flash mob che ha esaurito ogni sorpresa e può soltanto scavalcare la vita stessa. Atto estremo e devoto per un istante solo di popolarità.

Noriko’s Dinner Table completa Suicide Club proprio in questo senso: il virus parte dalla rete per annidarsi nelle coscienze. Non esiste più un responsabile, un portatore sano, ma la malattia ha contaminato case, scuole, tetti e strade. Il punto semmai è uno soltanto: essere connessi con se stessi. Perché quando le porte della rete si aprono non si può fare altro che vivere la vita di chi fu, colmare le perdite, sostituirsi ai defunti simulando nuove, temporanee identità. Identità in affitto dove s’interpreta il defunto davanti ai suoi cari. Per qualche ora, per un giorno forse, ma sempre per un tempo prestabilito, burocratizzato, definito come se fosse il lavoro più antico del mondo. La visione profetica e crudele di Sono trova qui la sua voce definitiva: non c’è possibilità oltre la simulazione, il contagio ormai è già avvenuto. Proprio per questo dopo Noriko’s Dinner Table il suo cinema ha cambiato pelle, si è trasferito in diversi lidi, ha raccontato altre storie di violenza, fino ad implodere nel capolavoro inarrivabile che è Love Exposure: film di segno opposto, tanto grande perché ancora crede nell’uomo e nell’Amore, al di fuori di ogni simulazione. E viene anche il sospetto che, dopo aver tanto patito, non sia proprio questo il credo, il sogno estremo di Sono: quello della Fede, della Speranza e, soprattutto dell’Amore, come recita il capito sovracitato della lettera ai Corinzi:

“(…) Quando ero bambino, parlavo da bambino, sentivo da bambino. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera oscura, ma allora vedremo in modo chiaro, faccia a faccia; adesso conosco soltanto in modo imperfetto, allora invece conoscerò come sono conosciuto. Ora, dunque, rimangono la Fede, la Speranza, e l’Amore. Questi tre. Ma quello più importante di tutto è l’Amore”.

Oltre un erotismo brutale, violento e carnale, oltre il dolore come ultima possibilità di comunicazione, la macchina da presa di Sono ritorna a uccidere e ad amare mentre urla il suo nome di cinefilo battesimo: Fuck Bombers!

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 21/10/2015

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