Shinjuku Swan

Girato senza interesse e con poche idee degne di nota, Shinjuku Swan è il peggior esempio di come un regista estremo come Sion Sono rischi di trasformare il suo cinema in un brand di maniera.

Quarto film realizzato da Sion Sono in questo 2015, Shinjuku Swan sembra arrivare ai suoi spettatori con un discorso critico già acquisito, conseguenza scontata derivante dal percorso intrapreso dal suo autore. Sono infatti ha aumentato la velocità della sua produzione in modo esponenziale, adottando un passo simile al connazionale Takashi Miike, che almeno da 10 anni ha assunto un ritmo che ha dell’incredibile. Tuttavia questo tipo di prassi ha portato entrambi ad un confronto obbligato con le logiche di mercato, ad un doppio passo che sappia alternare necessità alimentari e progetti personali senza soccombere alla schizofrenia, alla bulimia creativa, all’interno della quale la logica dell’accumulo appare dietro l’angolo. Se in questa dimensione l’esempio di maggior equilibrio, probabilmente a livello mondiale, è il vicino Johnnie To, anche Miike non si può certo dire un regista caduto vittima di tale logica fordista, nella quale il cinema persegue la sua identità industriale a volte anche con esiti artistici altissimi. La tenuta artistica di Sion Sono piuttosto solleva molti più dubbi, si arricchisce di film minori come questo ed entra sempre più in una logica che porta a giustificare produzioni alimentari prive di interesse. Prima ancora della visione allora, Shinjuku Swan si presenta ai suoi spettatori (almeno a quelli più consapevoli) come un film alimentare frutto di un avvicinamento di Sono alle prassi produttive di Miike. Praticamente una formula già pronta, sulla quale il film si adagia effettivamente senza molto clamore.

Il cinema di Sion Sono allora non è mai stato così facile ed auto-evidente come in questo Shinjuku Swan, adattamento di un celebre manga da tematiche yakuza e tono demenziale, un film che grida forte la propria svogliatezza ma soprattutto evidenzia gli enormi rischi corsi da Sono in questo momento. Non si può parlare di crisi considerata la potenza poetica e tarkovskiana del recente The Whispering Star, tuttavia attorno a Shinjuku Swan si raccolgono i peggiori segnali di una deriva manieristica che attraverso l’accumulo eterogeneo di elementi vada unicamente a saziare la pancia del fan service, del brand Sion Sono anarchico e folle da vendere sul mercato cinematografico nazionale e internazionale. E questo nonostante Shinjuku Swan non sia un film del tutto privo di interesse, specie per il cinismo del mondo che evoca in relazione ad uno dei temi più cari a Sono, l’abuso maschile sul corpo femminile. Quello di Shinjuku Swan è un mondo yakuza meschino e squallido in cui non esiste alcuna morale, unica eccezione il classico personaggio alla Sono che grazie alla sua personalità dirompente cercherà di cambiare le cose facendosi largo tra la folla. Tuttavia l’inerzia morale è troppo forte e ogni tentativo di evadere da questa dimensione di sopraffazione è costretto a fallire, un limite evidenziato anche dalla demenzialità con cui vengono raffigurati i vari gangster del film, nessuno dei quali ha dignità sufficiente da meritare un ritratto che non sia una sterile macchietta. Le intuizione quindi ci sono, e sarebbe forzato negarlo, tuttavia è l’alternanza di registri a non funzionare e non far entrare mai il film a regime; Sono, lavorando comunque con la mano sinistra e con una svogliatezza che porta ad un’estetica piatta e sciattamente televisiva, cerca di alternare riso e racconto serio ma il risultato non appartiene a nessuna delle due dimensioni, che anzi si disinnescano a vicenda lasciando passare tra di loro noia e frustrazione.

Shinjuku Swan è allora un film che comprime una materia narrativa evidentemente troppo vasta in 140 minuti di mortale lunghezza, senza che ci sia un vero scheletro di idee registiche a sorreggere il tutto. In questa svogliatezza sembra di approdare alla logica del tutto fa brodo, tutto fa “Sion Sono”, con una finta aderenza (in quanto totalmente superficiale) a canoni espressivi che sono stati realmente potenti solo alcuni anni fa, ma che oggi diventano fotocopie sbiadite e svendute a buon mercato. E’ questo in una parola il rischio che corre il cinema di Sono al giorno d’oggi, di svendersi, anzitutto dal punto di vista realizzativo, poetico. Esattamente quello che non è successo a Miike, capace piuttosto di nutrirsi della bulimia e dell’alternanza registica e delle esigenze alimentari per mantenere in vita un cinema più coeso nella sua visione e personalità.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 28/11/2015

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