The Virgin Psychics

L'eccessiva prolificità degli ultimi anni non sembra giovare a Sion Sono.

Che Sion Sono sia un regista incapace di tenere a bada i suoi istinti autoriali sul voler rimescolare costantemente il suo modo di fare cinema e che The Virgin Psychics sia il sesto film in un anno sono due fattori da tenere bene a mente.

Perchè The Virgin Psychics, tratto dal manga di Kiminori Wakasugi, è un’opera frenetica, troppo, feticista, incapace di staccare lo sguardo dall’ossessione vouyeristica del protagonista, sperando di fare colpo per quasi due ore con costanti visioni di seni e culi perfetti, che possono fare sicuramente un ottimo e piacevole effetto per una trentina di minuti ma che già verso la prima ora di film ci si comincia a chiedere dove si voglia andare a parare.

La storia comincia con il botto: Yoshida (Shota Sometani) è un masturbatore incallito, ha addirittura un rapporto di amicizia con i suoi kleenex, è dedito alle sue fantasie tipiche da liceale giapponese, incastrato in una vita fatta da una madre ed un padre sessualmente attivi ed un mondo ricolmo di bellezze in gonnella. Un Giappone paradisiaco se non fosse che Yoshida è un vergine per scelta, qualcosa gli annebbia gli istinti sessuali, e scopriamo che in lui esiste un legame profondo nato con una ragazza (chissà quale) con la quale strinse un patto d’amore quando erano ancora nella pancia della madre e “vicini di pancia”. Una trama bizzarra e a sprazzi geniale, che viaggia tra slapstick comedy ed erotico. E dal nulla si finisce nel supereroistico. Si ride (all’inizio) e si rimane attratti dalle prodezze infantili di Yoshida e dai corpi altamente eccitanti della miriade di attrici buttate sullo schermo (Elaiza Ikeda, Erina Mano, Maryjun Takahashi, Ai Shinozaki, Airi Shimizu e così via), ci si incuriosisce di fronte ad una banda di eroi psichici dotati di abilità particolarmente ridicole.

Tanti buoni spunti bruciati da una regia troppo focalizzata sull’ossessione del corpo, ed uno stile live-action stucchevole. Che davvero infastidisce, perché Sion Sono è vero essere un maledetto multiforme ma qui siamo distanti anni luce dalla prepotenza evocativa di Suicide Club o Hazard. Ma se vogliamo starcene in generi e anni più recenti, è praticamente un altro regista quello di piccole perle come Tokyo Tribe. E quindi si ritorna a voler ricordare che questo è qualcosa come il quinto film in un anno.

E’ una commedia che vista con distanza e occhi di alterità occidentale incuriosisce e a tratti affascina, ma che rischia di diventare una prova di sforzo per chi non è fanatico di un determinato tipo di cinema.

Per chi conosce qualcosa di cinema giapponese, certamente, può essere simpatico beccare uno come Ken Yasuda ossessionato dai seni femminili, così come poter incasellare un altro live-action al proprio archivio da cinefili asiatici, ma troppo non torna. Un po’ X-Men, un po’ commedia alla American Pie, questa volta Sion Sono ha fatto un passo indietro.

Autore: Diego De Angelis
Pubblicato il 17/05/2016

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