El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #4

Un'introduzione in quattro parti. Quarta parte.

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[ Leggi qui per la terza parte ]

Rivendicare una dimensione artigianale nella lavorazione del cinema significa rifiutare uno schema secondo il quale il produttore del film è il padrone e tutti gli altri sono i suoi impiegati. Senza ridimensionare in alcun modo l’ambizione narrativa e nulla togliere alla magia, cambiare modalità di lavoro significa agire sulla forma del film, riavvicinandosi in qualche modo ad aspetti di una più antica tradizione teatrale e circense: un’arte che si condivide, che si costruisce e si passa di generazione in generazione (tre ad oggi – genitori, figli e nipoti – compaiono nei film de El Pampero Cine).

Non c’è compiacimento (etico o tecnologico) in questo modo di valorizzare l’indipendenza, e ogni forma di nostalgia o d’insofferenza rispetto allo stato di cose presenti è trasformata ludicamente nei film di questi registi. Se La flor rappresentava il desiderio titanico di inserire tutta la storia del cinema in un solo film, non minore è la libertà di cui dà prova Mariano Llinás in un mediometraggio come Lejano interior (2020), nel quale con spirito settecentesco si mette in viaggio verso un luogo pieno di prodigi, allo scopo di rivelare al mondo immagini mai viste realizzate nel corso di un’esplorazione audace e un po’ spericolata. Convinto come Michaux che si possa “trovare la propria verità anche guardando per quarantotto ore una qualsiasi carta da parati”, affascinato dall’idea che portava Flaiano ad affermare che un viaggio notturno dalla camera da letto alla cucina potesse essere assai più vertiginoso di certi viaggi in Estremo Oriente, Llinás fa coesistere qui il massimo di documentazione con il massimo di invenzione: nella casa in cui è confinato con la sua famiglia durante la pandemia, oggetti come un giradischi, una libreria, una bottiglia vuota, la polvere accumulatasi sotto il letto e persino lo sguardo assorto di un gatto nel silenzio mattutino, si animano davanti alla macchina da presa fino a costruire una o infinite storie.

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È solo uno dei tanti esempi che mostrano come al sistema dello storytelling imperante i registi del Pampero Cine scelgano di sostituire un perenne lavoro sulla finzione. Costruire una storia non è lo stesso che costruire una finzione, perché la finzione non ha morale e al limite è più vicina a una coreografia. Le storie si moltiplicano e si intrecciano nei film del Pampero Cine, saturano la struttura della narrazione ma si dimostrano nello stesso tempo (paradossalmente?) inessenziali. Esse trascinano lo spettatore nel coinvolgimento narrativo, lo travolgono e lo affascinano, provando contemporaneamente come l’essenziale non risieda per forza in un percorso ordinato, e come non concludere in maniera tradizionale una storia non intacchi in nulla il piacere del racconto. Sottraendosi all’imposizione del tema e glorificando la forma e la materia del cinema, raccontare storie diventa allora anche l’occasione per dare spazio a una certa comicità del reale, e per offrire a chi guarda la libertà di fare ipotesi su quel che vede. Ma soprattutto, la finzione rappresenta l’espediente fondamentale attraverso il quale esplorare un territorio e abitarlo in modo diverso.

La decisione di togliersi dagli ambienti urbani e di costruire la provincia di Buenos Aires come uno spazio di finzione risponde al desiderio di fare di essa un luogo leggendario, mostrando come l’invenzione cinematografica sia capace di trasformare anche il territorio più anonimo e riempirlo di misteri. Parallelamente, come se fosse l’altra faccia di uno stesso gesto, ripercorrere la topografia della capitale attraverso le canzoni di un album di musica popolare, come avviene in Corsini interpreta a Blomberg y Maciel del 2021, significa misurarsi con una città per evocare la storia dell’Argentina nell’Ottocento, quella della guerra civile tra federales e unitarios tanto cara agli interessi di Llinás.

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Ognuno dei registi del Pampero Cine convoca in effetti lo spettatore ad accedere a un mondo che è (non soltanto) suo. Ogni volta ci racconta qualcosa di sé e delle proprie ossessioni, dissemina i film di tracce che promuovono in chi li guarda il gusto dell’agnizione, creando un ulteriore legame che permea dall’interno quella unica grande opera che tutti insieme stanno costruendo da più di vent’anni. Così in alcuni film il regista è protagonista insieme ai suoi migliori amici (Historias extraordinarias), o vuole conoscere meglio alcune persone e passare del tempo con loro (La flor); in altri fa delle proprie ossessioni – nei confronti di un musicista di nome Schubert, ad esempio – un tema sotteso a diversi film (La vendedora de fósforos, Un andantino); in altri ancora i propri pupazzi e le proprie letture diventano autentici personaggi cinematografici (Clementina, Trenque Lauquen); o può accadere anche che la celebrazione di un’amicizia diventi l’occasione per una creazione libera da ogni vincolo – come avviene nella corrispondenza tra Mariano Llinás e Matías Piñeiro durante la pandemia (Hay cartas que detienen un instante más la noche).

Che la storia sia al servizio della geografia o che avvenga invece il contrario, che questioni private smettano di essere tali e nutrano la materia cinematografica, si assiste dunque a una costante ridefinizione dei concetti stessi di centro e sfondo di un film. Molte altre forme di détour – la musica come elogio delle cose non terminate in Un andantino; la poesia come dispiegarsi di un’energia cinematografica e femminista in Las poetas visitan a Juana Bignozzi – mostrano sostanzialmente come nei film del Pampero un certo grado di autoreferenzialità coincida con la possibilità massima di parlare a qualsiasi spettatore, e come l’amore nei confronti del cinema sia inseparabile dal fare cinema con le persone e persino con le cose amate. A ogni nuova creazione, i registi del Pampero Cine non cessano di dirci che ogni film è una dichiarazione d’amore.

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Pensare il cinema in questo modo significa dissolvere la frontiera tra il vivere e il fare cinema, concepire il cinema non come diversivo o intrattenimento (come qualcosa che serve a passare il tempo) ma come diversione e divertimento, come un mezzo che consente di guardare il mondo in modo diverso. D’altra parte non si gioca alla vita, si vive; e in una vita profondamente attraversata dal cinema la dimensione ludica è parte integrante di un progetto che non perde mai di vista l’obiettivo principale: la capacità trasformativa del cinema, la strabordante e contagiosa dimensione esistenziale che lo innerva dal profondo e alla quale è impossibile sottrarsi, la possibilità di farci vivere vite che non sono la nostra e contemporaneamente possono diventarlo.
È un progetto che genera entusiasmo. Testimoni di un’arte del XX secolo, esiliati temporali perennemente in viaggio, i registi del Pampero Cine sono i paladini fedeli di una magnifica ossessione.

P.S.: questa introduzione si ferma qui, mantenendo il desiderio di continuare – il materiale e gli spunti non mancano. Ulteriori tracce possono trovarsi nei contributi di Fernando Ganzo su Trafic, di Claire Allouche sui Cahiers du Cinéma e Répliques, di Roger Koza su Caimán Cuadernos de Cine e Con los ojos abiertos. Non ho avuto accesso all’argentina Revista de Cine che da dieci anni a oggi è animata, tra gli altri, anche da Mariano Llinás e Alejo Moguillansky: sono sicuro che aprirà ulteriori capitoli che andranno esplorati. E infine: YouTube è una miniera di conversazioni con tutti i registi del Pampero Cine, e in particolare di straordinarie conferenze, conversazioni e chiacchierate con Mariano Llinás. Ho passato le ultime settimane ad ascoltarne svariate – traendone alcune delle informazioni presenti in questo articolo – con grande interesse, e ancor più grande divertimento.

Autore: Andrea Inzerillo
Pubblicato il 06/03/2024

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