Signs

Prima ancora dell'uso che ne farà in The Village, il brivido di Shyamalan inizia dal fuoricampo di un'invasione aliena

Protagonista delle regole del brivido cinematografico, M. Night Shyamalan, è un regista consapevole, e capace, nel filmare l’invisibile che più ci spaventa: dove l’occhio non arriva e non vede è in quell’assenza di sguardo che inizia la vera paura. Dopo l’orrore in diretta dell’11 Settembre, Shyamalan racconta una storia di invasione aliena circoscrivendola dentro i campi di grano di una fattoria americana. L’home invasion per il regista indiano è un concetto che travalica le immagini di distruzione dell’invasione nazionale in diretta televisiva, arrivando a spaventare e turbare il singolo individuo lontano dall’epicentro di ground zero. La paura che suscita la narrazione dell’invasione straniera, se da un lato è nata con Wells evolvendosi in panico collettivo tramite la trasmissione del 30 Ottobre 1938 di Welles, in Signs rimane comunque un discorso fruibile per il grande pubblico, un virus da diretta canalizzato attraverso gli apparecchi televisivi, nei mille occhi che arrivano lontano dai maggiori centri abitati, in quelle zone dell’America dove a volte l’uomo si sente in disparte dalla Storia nazionale. «E’ come nella Guerra dei Mondi», così si esprime il fratello (Joaquim Phoenix) dell’ex pastore protestante Graham Hess (Mel Gibson) mentre la televisione manda le immagini del primo contatto. E’ come la Guerra dei Mondi, giustamente, solo che al posto della radio c’è la televisione ora a definire i confini della verità. Il terrore passa attraverso l’apparecchio televisivo che lo trasporta lontano, tramite un segnale elettromagnetico, alle periferie della nazione. Luoghi questi dove l’essere americani ha da tempo spesso tacciato, e meno spesso compreso, lo straniero, «E’ lui!», si esprime la famiglia al completo dentro ad una tavola calda mentre vede salire in macchina lo stesso Shyamalan (uno dei camei più importante nell’intera sua filmografia), che interpreta Ray, un indiano, e straniero, che ha ucciso con la macchina la moglie del reverendo. Solo lo schermo televisivo riesce a riprodurre, anche da spento, le immagini degli alieni. Dentro allo schermo appaiono e dentro allo schermo muoiono. E’ attraverso quello stesso apparecchio che nella contea di Bucks in Pennsylvania si sono viste le immagini dei due aerei Boing 767 che hanno abbattuto le torri gemelle. E’ attraverso la televisione che si è atteso, con gli occhi rivolti al cielo, lo schianto del volo United Airlines 93, precipitato nei pressi Shanksville, contea anch’essa della Pennsylvania. E’ la televisione che ci conferma la verità del mondo circostante veicolando un messaggio che può falsamente tranquillizzare o emendamente spaventare.

Carrelli in avanti, zoom in ottici, sono questi fondamentalmente le due scelte registiche che Shyamalan utilizza per escludere il fuoricampo dalla vista dello spettatore e, a sua volta, per comprenderlo nello spazio dei personaggi. Attraverso questi due semplicissimi movimenti il regista conferma la tesi della focalizzazione interna di primo grado, arrivando ad assumere il punto di vista dei personaggi, celando ed eludendo, delle informazioni anche a noi spettatori, che come loro, non conosciamo. Gran parte della sua filmografia – togliendo l’uso hitchcockiano che riesce a fare della focalizzazione a grado zero usata in The Sixth Sense - si basa su questo principio, Shyamalan è e rimane uno dei più grandi talenti dell’orrore fuoricampo. Le critiche che ne derivano, basate sulla lacunosa scrittura in fase di sceneggiatura, spesso non considerano questo aspetto fondante del suo cinema. E’ nel non visto, nell’esclusione, nella soppressione di una riga di scrittura che sta la forza del cinema di Shyamalan. Il vuoto che ne deriva crea lo spazio necessario a terrorizzare, un vuoto necessario per l’utilizzo della sua riconosciuta tecnica cinematografica capace di riempire, con un brivido, la mancanza. Due scene su tutte di Signs rimarranno ai posteri per l’importanza dell’utilizzo del fuoricampo audio: la scena del walkie talkie rivolto al cielo ed impugnato dalla catena umana composta da tutta la famiglia e lo zoom in sulle pareti della casa ad inseguire il guaito del cane. Entrambe davvero meravigliose. I segni che provengono dall’esterno indurranno la famiglia a stringersi sempre di più facendo trapelare delle sfaccettature dei personaggi che ci verranno narrate attraverso dell’analessi, per poi convogliare tutta all’interno della cantina della casa, in quel luogo catartico per eccellenza nell’intera filmografia shyamalaniana. Al regista dei twist non occorre questa volta stravolgere il finale alla ricerca della sorpresa – caratteristica questa che ha fatto la fortuna di The Sixth Sense - quello che a lui occorre è che la gente creda, che abbia fede nell’invisibile, che abbia fiducia nel suo uso del fuoricampo, indirizzando il loro sguardo verso quella regione che coincide con l’ignoto. Un cinema che non appartiene agli agnostici, fatto su misura per chi crede. Che siano i fantasmi (The Sixth Sense), che sia il destino (Unbreakable), gli alieni o le mostruosità pagane ai confini del bosco (The Village), che sia la leggenda favolistica raccontata dentro ad un contesto urbano (Lady in the Water), o semplicemente la fantascienza anni ’50 (The Happening) o weird (After Earth), l’importante è non essere tanto disillusi, tanto da perdere la fede, come accade nel film al reverendo Hess, in quanto solo allora potremmo non avere più la possibilità di sognare, empatizzare, e guardare ben oltre a ciò che ci viene trasmesso e mostrato. A che natura appartieni? «Sei di quelli che vedono segni o pensi che sia il caso a trasformare il mondo?»

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 16/01/2017

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