"Chicago" di David Mamet
Il romanzo che David Mamet voleva scrivere da vent’anni: teoria e pratica del raccontare una storia

«Non ci interessano le condizioni del protagonista “prima che la storia cominciasse”, e non ci interessava affatto sentire quello che aveva provato o che provava per se stesso, prima che decidesse di comunicarcelo». Così David Mamet, in una delle molte e lucide teorizzazioni del dramma contenute ne I tre usi del coltello, il suo saggio divenuto classico e libro imprescindibile per capire la forma narrativa americana del secondo Novecento.
In quella miniera di spunti, che usa il teatro solo come base di partenza (come MacGuffin, direbbe Mamet citando Hitchcock), tra i vari sembra racchiuso anche l’incipit di Chicago, il romanzo che l’autore voleva scrivere da circa vent’anni (edizioni Ponte alle Grazie, pagine 310, euro 18). Si tratta infatti di un inizio esattamente in fieri, in piena dottrina mametiana: due personaggi, Mike e Parlow, sono appostati in posizione di caccia alle anatre, uno aspetta gli animali che arrivano da destra, l’altro da sinistra. Non sappiamo nulla di loro, la prima informazione arriva dal dialogo: parlano della natura e della vendibilità di una storia, della possibilità di farci soldi. Poi le anatre volano da sinistra e Mike le liscia, «la sinistra era il lato di Parlow».
Ecco perché, fin dalle prime righe, Chicago è l’ennesima applicazione scientifica di Mamet allo storytelling. Che cambi l’arte frequentata per il drammaturgo, regista e scrittore poco importa: ha riscritto un pezzo di teatro del secolo scorso, per cui abitualmente si cita Glengarry Glen Ross, premio Pulitzer 1984, da cui fu tratto il film Americani di James Foley, ma le sue pièce sono continuamente rappresentate, in ultimo American Buffalo diretto da Marco D’Amore nel 2017; ha segnato il cinema con gli stessi alti risultati, prima da sceneggiatore e poi da regista; i suoi saggi sono riferimenti da lui stesso insegnati (per esempio alla Columbia University). Mancava solo questo romanzo inseguito da decenni, un libro che reca il nome della sua città, il titolo-archetipo Chicago con ciò che si porta dietro: il centro dell’Illinois negli anni Trenta, perfettamente diviso tra due mafie, il Nord controllato dagli irlandesi di O’Banion e il Sud dominato da Al Capone. È qui che si muove Mike Hodge, ex pilota della prima guerra mondiale e oggi cronista del Chicago Tribune: chiamato per lavoro a riportare gli effetti della malavita, gli omicidi strategici per il controllo del territorio, droga, prostituzione e incendi dolosi, i locali che fanno da prestanome (soprattutto fiorai), l’orgoglio incrociato delle gang, dal cattolicesimo intransigente degli irlandesi ai delitti d’onore dei siciliani.
Ma, soprattutto, Mike e l’amico Parlow lavorano nella redazione di un giornale: questa diventa subito per Mamet un laboratorio sulla pratica di raccontare una storia, come costruirla e come - ovviamente - falsificarla. Non si può riferire il vero, nella rischiosa Chicago, bisogna piuttosto confezionare un racconto con parvenza di plausibilità e soprattutto vendibilità: «La notizia è ciò che rende chi la legge compiaciuto, arrabbiato, o abbastanza quello che ti pare, da arrivare a pagina dodici e leggere la pubblicità dei tappeti», enuncia un responsabile. Tanto che i cronisti spesso inviano un brogliaccio che riporta i fatti, un soggetto, sta poi ai riscrittori della redazione il compito di abbellire e cucinare la notizia per pubblicarla. Metafora implicita del rapporto tra autore e produzione, e forse anche della difficoltà di restare se stessi dentro una commissione, che Mamet ha provato più volte sulla pelle (come nella sceneggiatura di Hannibal di Ridley Scott).
Il protagonista Mike è quindi un fabbricante di storie, che mostra così il carattere finzionale alla base di ogni racconto e il calcolo a tavolino. In tal senso la sua figura appare il precipitato di un’altra riflessione ne I tre usi del coltello, in cui Mamet critica la narrazione convenzionale: «"Non so perché ti sto dicendo questo...". Alternative: "Sai, anni fa...", oppure: "Quando ero giovane...", o "Una volta avevo un gattino...", e giù immagini di gente con le braccia distese, che piroetta al rallentatore su una spiaggia. Questa narrazione superflua non solo si verifica regolarmente nelle opere teatrali e nei film, ma si verifica all’incirca allo stesso punto: a sette decimi della durata, subito prima o subito dopo dell’inizio del terzo atto (...). È una codificazione organica del meccanismo umano di sistemazione delle informazioni». Ecco perché la storia di Mike è radicalmente antididattica: il giornalista viene introdotto nella battuta di caccia e conosciamo il suo passato militare dopo settanta pagine. In Mamet, infatti, sappiamo solo ciò che i personaggi ci dicono attraverso i dialoghi: quando un elemento emerge è perché questo affiora nel naturale vivere e parlare delle figure sulla scena, che non vengono mai forzate né imboccate da un demiurgo. Nessuno si autodefinisce, nessuno dà una spiegazione, c’è qui l’esatto contrario dello “spiegone” della maggioranza della cine-letteratura Usa contemporanea. Un esempio lampante? L’inizio del film Spartan del 2004: una ragazza viene rapita, nessuno ci dice subito che è la figlia del Presidente. Tutto avanza assolutamente in fieri: ecco perché i dialoghi di Mamet sono così implacabili, inchiodano senza scampo, innescano un page turner intellettivo in cui occorre continuare fino alla fine, appagando gradualmente la nostra sete di conoscenza attraverso la costruzione drammaturgica.
Mike è innamorato di una bella irlandese, Annie Walsh, posizionata per nascita in una delle due fazioni in conflitto. La ragazza viene uccisa davanti a lui da un sicario a colpi di pistola. Chi poteva volerlo, e perché non hanno sparato a Mike? Che senso ha eliminare una giovane innocente e lasciare vivo il cronista cittadino? È chiaramente un MacGuffin, il pretesto mametiano per innescare la riflessione sul genere in un profluvio di pedine, dalla maîtresse di un casino a un ladro informatore, dai sicari a loro volta uccisi alle vedove sulla carta inconsolabili. I pretesti devono essere semplici, sostiene Mamet, non troppo specifici e riconoscibili a tutti per favorire l’immedesimazione: la morte dell’amata, un omicidio che è puro topos (un killer entra e spara colpi di pistola, tutto qui), esattamente come una vedova si lancia sulla bara del marito o una donna afferma di possedere lettere compromettenti. Ma non si aggiunga altro sul dipanarsi dell’intreccio, basti dire che nulla è come sembra, tutto è possibile menzogna e ogni cosa ha interpretazione multipla. Ovunque, come sempre, è l’evidenza del carattere finzionale della storia e l’eterna riflessione sul meccanismo: ricordate la pistola de La casa dei giochi, capolavoro del 1987, che in una sublime inquadratura si rivela essere una pistola ad acqua? Ecco, quella strategia è applicabile più volte a Chicago.

Affresco letterario di una città come pensiamo che sia (e dunque un immaginario), racconto sulla corruzione diffusa e sulla manipolazione dei fatti (le storie vere vendono meno, si dice in redazione), il romanzo è facilmente accostabile alla sceneggiatura de Gli intoccabili scritta per De Palma, con la stessa Chicago anni Trenta e De Niro nel ruolo di Capone. A ben vedere però si offre come nuova summa del pensiero dell’autore, nome chiave del nostro tempo, capace di muoversi fluidamente tra teatro, cinema e letteratura, in grado di scrivere e insieme decostruire l’ingranaggio della scrittura, ovvero frequentare il racconto e mostrare cosa c’è dietro a una storia. Teoria? Certo. Ma anche un continuo gesto d’amore verso l’atto stesso del narrare. In Chicago la proprietaria di un bordello “inventa” un taglietto da barba per occultare il rossetto di una prostituta sulla camicia di un ricco cliente:
«“...menti più svelte della tua..” disse Peekaboo. “Ascolta e impara: il lato destro. Fai cadere qualche goccia di sangue sulla macchia di rossetto sul colletto della camicia, sulla macchia della giacca; metti dell’alcol sulla ferita, la asciughi con un panno pulito, usi la tua matita emostatica, lo copri con un cerotto”.
“La giacca puzzerà di ammoniaca” disse Marcus.
“L’hanno usata ai bagni per provare a togliere il sangue” disse Peekaboo».
Il congegno di Mamet scatta matematico: il trucco è ancora servito.